Oggi è un dettaglio che sembra sfuggire alla memoria di alcuni, ma una volta i terzi capitoli erano lo standard nel mondo di Pokémon. Se Rosso e Blu avevano conquistato il mondo, fu Giallo a imporsi (risultandolo tutt’ora) come il singolo gioco Pokémon più venduto di sempre. In che modo? Attraverso modifiche minime, ma azzeccate, di una formula che aveva già funzionato una volta con la coppia principale di quella generazione. Lo stesso fecero più avanti Cristallo e, soprattutto, Smeraldo, con un inserimento di Rayquaza nella trama molto più cinematografico -ma, in sostanza, non molto diverso- rispetto a quanto si era fatto con Suicune qualche anno prima. Pokémon Platino è l’ultimo esponente di questa nobile stirpe, e secondo molti è quello che l’ha fatto meglio di tutti. Alcuni si spingono addirittura a definirlo l’avventura Pokémon definitiva.
Ma è davvero così? Dopo averlo giocato di recente, a quasi dieci anni di distanza dal mio ultimo viaggio a Sinnoh, credo di aver trovato la risposta.
Neve di primavera
Quello che colpisce di Platino, da un punto di vista prima di tutto estetico, è che Sinnoh è cambiata. La regione in cui si svolgevano Diamante e Perla è sottoposta a una serie di mutamenti che aiutano a separarla dalla sua vecchia versione, con due elementi chiave: una spruzzata di neve, in diversi luoghi tra cui Duefoglie e lungo il limitrofo Percorso 201, accompagnata da un ben più massiccio lavoro sulle texture. Qualcosa che nei titoli principali di Pokémon non era mai stato fatto in maniera così estesa all’interno della stessa generazione.
Siamo nel 2008, epoca in cui il Nintendo DS comincia ad entrare nella sua piena maturità, ed è come se Game Freak avesse capito che da quel Nintendo 64 portatile poteva pretendere di più. In retrospettiva, effettivamente, Diamante e Perla hanno il clamoroso difetto di sfruttare ai minimi termini l’hardware su cui si trovano. Il 3D tanto sbandierato alla vigilia del lancio non si traduce infatti in una sorta di Pokémon Stadium portatile (lavoro che a onor del vero, coi suoi 500 mostriciattoli poligonali da racchiudere in una cartuccia del DS, sarebbe stato poco realistico), bensì in un “Rubino e Zaffiro 2.0”: visivamente la sensazione data da Diamante e Perla non è troppo differente da quella offerta durante i titoli di Hoenn, esclusi naturalmente i rari effetti prospettici che un mondo tridimensionale -ma non troppo- permette. Se da un lato si può riconoscere a Game Freak le difficoltà da affrontare con un salto di hardware, dall’altro c’è da dire che certi sforzi potevano tranquillamente essere affrontati da subito, correndo anche qualche rischio. Metroid Prime Hunters, titolo coetaneo di Diamante e Perla, mostrò già nel 2006 una grafica capace di portare ai limiti il Nintendo DS, complice l’influenza dei titoli GameCube. E Pokémon, su GameCube, c’era già stato con gli ottimi Colosseum e XD: una lezione che evidentemente Game Freak non ha voluto ascoltare, battendo strade più sicure.
In tutto questo Platino si inserisce in una sorta di Terra di Mezzo. Pur mantenendo il pudore dei primi titoli di Sinnoh nel far capire al giocatore che si era su una console a 64 bit -tecnicamente 32-, in diversi momenti l’occhio trova qualcosa di genuinamente piacevole da vedere. Oltre al celeberrimo Mondo Distorto, che più che un vero e proprio sforzo grafico risulta un uso sapiente di quanto Game Freak aveva già fatto sulla console, diversi angoli di Sinnoh conoscono una nuova vita. Il Bosco Evopoli, il cui stile sarà poi la base per il nuovo design del Bosco Smeraldo in HGSS, è ora illuminato come se la luce del sole trapelasse dalle fronde degli alberi; Giubilopoli guadagna tinte più scure e le tipiche luci di segnalazione dei grattacieli, delizioso tocco di realismo; l’isola della Zona Lotta è completamente ristrutturata e trasformata in un’isola tropicale (insensato da un punto di vista geografico, ma bello da vedere).
Ma quant’è bello andare in giro per i colli di Sinnoh
Chiarita la questione grafica, andiamo a dissezionare Pokémon Platino nel suo aspetto più cruciale: il gameplay. Una lamentela molto comune ai titoli Pokémon, da Nero e Bianco in poi, è l’eccesso di linearità; troppe volte veniamo presi per mano, troppe volte ci viene detto cosa fare e dove andare. Guardando la mappa di Sinnoh, e il percorso da seguire al suo interno, appare chiaro come si sia di fronte all’ultima volta in cui Pokémon ha osato chiederci qualcosa di impegnativo nel corso della nostra esplorazione. Questo, naturalmente, se non ci fosse alcun intervento da parte dei nostri compagni di avventura.
Ed è esattamente quello che accade in Pokémon Platino, così come in Diamante e Perla: la sensazione di essere lasciati liberi di esplorare è in realtà una menzogna, un sapiente escamotage di Game Freak che nei fatti ci pone costantemente dei paletti, dei personaggi che ci ricordano la prossima meta e delle barriere tragicomiche in perfetto stile Pokémon (gli Psyduck col mal di testa non hanno molto da invidiare alle guardie assetate di Zafferanopoli). In nessun momento, durante la mia avventura in Pokémon Platino, ho avuto il tempo di chiedermi “e ora dove vado?”; c’era sempre qualcuno, vuoi Camilla, vuoi il Team Galassia, vuoi il nostro rivale, che mi suggeriva esplicitamente cosa fare. Facendomi sentire quasi preso in giro: perché mi tenti con una regione così articolata, dai bivi così numerosi, per poi spingermi costantemente verso il prossimo checkpoint? Perfino Oro e Argento, nella tutt’altro che ingarbugliata Johto, erano stati in grado di regalarmi un momento in cui non sapevo bene dove andare, ed era dopo Amarantopoli, col bivio per Olivinopoli o Mogania. Platino, gioco uscito nove anni dopo e con un impianto completamente diverso, non ci è riuscito.
Altra problematica chiave dei giochi di Sinnoh è proprio lui, l’immancabile Monte Corona. Ed è a questo punto che viene spontaneo guardarsi indietro, nello specifico a quei Rubino e Zaffiro che tanti appassionati fecero discutere alla loro uscita. Un aspetto aspramente criticato fu quello dei percorsi d’acqua, giudicati monotoni, abbondanti, in poche parole un lungo sbadiglio all’interno del gameplay dei giochi di Hoenn. Quasi a voler rimuovere il problema alla radice, a Sinnoh di acqua quasi non ce n’è, compensando la cosa con il labirintico Monte Corona. Il quale, se possibile, esaspera i problemi del mare di Hoenn.
A partire dalla monotonia: nel Monte Corona non c’è assolutamente nulla da fare, se non spaccar rocce e spostare massi. Se da un lato la cosa è comprensibile, stiamo pur sempre parlando di un monte sacro protetto dalla mano dell’uomo, ciò non significa che il gameplay debba riflettere fedelmente la cosa, perché il rischio, concreto, è di annoiare il giocatore. Quello che puntualmente accade in Platino, soprattutto quando, alla quinta volta che ci sarà richiesto di attraversare il Monte (spezzando ulteriormente il naturale fluire del gioco), ci accorgiamo di aver bisogno di almeno due Pokémon che conoscano abbastanza mosse per permetterci di proseguire. Ed è qui, ancora più che nel mare di Rubino e Zaffiro, che il gameplay risulta soffocato e appesantito da un concetto tanto interessante quanto espresso in maniera rozza.
Se ad Hoenn vi bastava uno Sharpedo per esplorare un oceano colmo di isole, tesori e abissi, a Sinnoh dovrete portarvi dietro un Bibarel e un Machop per spostare sassi in una grotta. Un po’ brutale come paragone, ma è quello che praticamente accade nei giochi.
Concludo la panoramica geografica di Sinnoh con un ultimo grande nodo: quello della varietà climatica. Per anni sono stato convinto che la regione di Diamante e Perla fosse stata un’enorme passo indietro rispetto a quella di Rubino e Zaffiro, con una diversità di paesaggi ridotta ai minimi termini. Giocando a Platino mi sono accorto che non era così; Sinnoh è ricca di varietà, ma la distribuisce nel modo sbagliato. Prendiamo la celebre palude di Pratopoli: il suo problema, anche comprensibile da un punto di vista sanitario, è che è completamente isolata dalla città. Pratopoli risulta così un centro urbano estremamente anonimo, senza delle qualità precise che sappiano farlo risaltare. Un altro problema è quello del deserto, incassato malamente nell’Area Lotta con la stessa rozzezza di quello di Hoenn. Ma se a Hoenn avevamo il sistema del Monte Camino (strutturato alla perfezione col trittico di città Brunifoglia-Cuordilava-Mentania, e percorsi annessi), Sinnoh non ha nulla con una raffinatezza paragonabile. E Platino, per motivi più o meno comprensibili, non fa nulla per migliorare l’organicità della sua regione, che per il resto dà al giocatore l’impressione di essere una Johto sotto steroidi.
Umano, troppo umano
Concentrandoci nuovamente su Platino, il suo ultimo grande difetto è legato al team malvagio, il Team Galassia. Ed è al suo interno che si crea una clamorosa spaccatura, tra il suo leader Cyrus e il resto dell’organizzazione: il primo risulta, ad oggi, uno dei migliori personaggi della saga. L’intera vicenda di Pokémon Platino nasce esclusivamente dalla volontà di Cyrus, il quale sogna un mondo dove gli uomini possano liberarsi della loro imperfezione e della loro caducità. In questo il capo dei Galassia è piuttosto chiaro: nel nostro adirarci, nel nostro deprimerci, in poche parole nel nostro essere “deboli” vi è la chiave della nostra imperfezione; solo riscrivere le leggi del mondo può permetterci di scampare a tutto questo. Concetti pazzeschi per un gioco Pokémon, uno stoicismo estremo che difficilmente non riuscirà a catturare un briciolo della nostra empatia, soprattutto quando Camilla lo liquiderà ricordando “la bellezza del crescere imparando dai nostri errori”.
E il resto del Team Galassia? Un’organizzazione che non sa quello che vuole. Nel corso del gioco ci diranno che vogliono rubare tutti i Pokémon, avere il monopolio dell’industria energetica, che vogliono andare nello spazio (!!). In poche parole ci troviamo di fronte a un gruppo di persone senza obbiettivi precisi e coerenti, giustificabile solo in parte con l’adorazione che circonda il carismatico Cyrus. Se il messaggio che voleva essere trasmesso era quello del Team Galassia come di una setta nelle mani di un megalomane, si può dire che sia passato solo in parte. E, nella sua lodevole ambizione, qualcosa che in un gioco Pokémon non poteva mai essere espresso esplicitamente come avrebbe meritato: alla fine quello che ci ritroviamo, superficialmente, è un capo adirato col mondo e dei tizi col caschetto blu che non sanno bene cosa fare delle proprie vite.
Cyrus è inoltre l’unico, vero personaggio di Pokémon Platino che risulta memorabile nel corso dell’avventura principale. Se Camilla ha il pregio di comparire in diversi punti del gioco, rendendola un campione “attivo”, traspare ben poco della sua personalità, soprattutto per la scarsa interazione con altri personaggi. Lucinda soffre sicuramente della sindrome del “personaggio strozzato”: a causa del suo ruolo secondario non riesce a ritagliarsi uno spazio degno di nota, rubato da un Barry la cui crescita personale non è nemmeno paragonabile a quella di Silver in Pokémon Oro e Argento, proseguendo semmai il filone del rivale amichevole (e anonimo) inaugurato da Vera/Brendan in Pokémon Rubino e Zaffiro.
A margine, per concludere, una parentesi sulla storia: nel suo complesso ben lungi dall’essere la migliore della saga, fedele alla formularità delle tre generazioni precedenti, propone il climax con Giratina in maniera non molto diversa da quello con Dialga o Palkia in Diamante e Perla, ossia in modo stridente. Manca completamente un crescendo che ci carichi di adrenalina, al contrario di Rubino e Zaffiro, e l’incontro coi draghi leggendari avviene in una regione per il resto estremamente tranquilla, pacata, lontata da grandi contrasti e conflitti. Non è un caso che si trovi qui una città di nome Flemminia, dopotutto.
La conferma di Sinnoh
In Pokémon Platino i pregi, comunque, abbondano. A partire da un gameplay che scorre in maniera impeccabile, escluso proprio quell’ingombrante Monte Corona che aggrava ulteriormente la sua situazione; proseguendo col Parco Lotta, fonte quasi inesauribile di divertimento; concludendo col Mondo Distorto e le ragioni che ci hanno portato lì, momento di rara raffinatezza all’interno della narrativa Pokémon. Il proposito di questo articolo non era infatti celebrare Platino, titolo a cui sono state riservate già abbastanza (e in buona parte meritate) lodi, quanto semmai evidenziare i suoi problemi strutturali, i quali lo rendono nonostante tutto un gioco ricco di ombre, oltre che di luci. Ombre che è giusto sottolineare, anche per riportare alla realtà i fan più sfegatati.
E, se vogliamo, questo articolo può anche essere letto come una conferma: che un remake di Diamante e Perla, nonostante tutto, avrebbe senso di esistere. Proprio per risolvere questi difetti profondi, che se limati con abilità potrebbero permettere alla regione di Sinnoh di esprimere un potenziale che fino a oggi non è stata in grado di fare nei titoli che l’hanno vista protagonista.
Con la speranza, naturalmente, che non subiscano lo stesso trattamento dei remake di Rubino e Zaffiro.
Sogna un corso universitario per scrivere biografie sagaci in tre righe. Creatore di Johto World, segue Pokémon dal suo arrivo in Italia nel 1999. Ne ha scritto e parlato così tanto negli ultimi due decenni che un sito come questo era una conseguenza inevitabile. Amante di Nintendo in generale, parla spesso di tutt’altro.
menomale che hai detto che ha senso di esistere, ero pronto a buttare la cartuccia nel detersivo per piatti