Completismo e altre creature straordinarie

Lo scorso ottobre la mia ragazza mi ha regalato Crash Bandicoot 4: It’s About Time per il nostro anniversario. Da fan di lunga data non vedevo l’ora di giocarci ed esplorare ogni anfratto di ogni livello. Sfortunatamente, mi sono reso conto molto presto che la mia propensione per il completismo sarebbe stata la mia rovina.

I livelli sono immensi, le casse innumerevoli e la frustrazione in costante crescita. Ogni livello deve essere giocato più volte e alla perfezione per ottenere tutte le reliquie e le gemme per completare il gioco. Arrivato alla fine, mentre mi godevo i titoli di coda, ho pensato a quanto ancora mi mancava per giungere al fatidico 100% (106% in realtà, ma allora non lo sapevo) e due parti di me hanno cominciato a cozzare con forza: “devi completare il gioco, dai è stato bellissimo: i colori, il design dei livelli, devi provare tutto! Poi vuoi mica lasciarlo lì? È un regalo e aspettavi questo gioco da anni senza speranze di vederlo davvero. Devi finire tutto” e “Ma chi diamine te lo fa fare dai, ti sei schiantato apposta 98 volte [non è un eufemismo, ndr] contro un albero nel livello con Polar per poter prendere tutte le casse e sei comunque arrivato al fondo con due casse non rotte, per completare tutto devi fare quel livello perfettamente senza mai morire e per di più ben due volte. È non solo folle, ma anche inutile farsi venire un’ulcera per questo dai”.

Questa reliquia incarna lo spirito del completismo che mi perseguita nei miei incubi.

È di questo che voglio parlarvi oggi: perché io dovrei completare un videogioco? Insomma, la classica domanda che attanaglia tutti quanti quelli che non hanno di meglio da fare se non porsi domande e rivalutare tutto quello che fanno giornalmente. Ma dopo aver passato giorni ad arrovellarmi su questa domanda senza trovare una risposta soddisfacente, ho capito che non stavo guardando il problema dalla distanza giusta, mi serviva un quesito più ampio: perché sento il bisogno di completare i videogiochi?

Cosa c’è di più tedioso di dover girare l’intera mappa per poter trovare tutti i semi Korogu in Breath of the Wild? O di esplorare e completare tutti i punti d’interesse nel Velen o nelle Skellige in The Witcher 3? Il completismo è solitamente più un lavoraccio (un grazie a Tommaso per il termine) che un divertimento. Nonostante ciò sento una forte spinta verso il completismo per due motivi: il primo (auto esplicativo) è il cercare di estrarre il maggior numero di ore d’intrattenimento da un videogioco; il secondo, molto più interessante, è che sono spinto dalle aspettative che gravitano intorno alla cultura videoludica.

Giusto due cose da fare.

Le aspettative normative sono subdole e molto forti: esse sono i frutti delle pratiche sociali dei gruppi e servono a mantenere lo status quo, una sorta di regolamento non scritto che viene applicato attraverso le interazioni e i giudizi tra i pari, al fine di creare un’identità ben definita e, quindi, dei confini ai gruppi. O incarni tutte le caratteristiche o sei fuori. Sono sicuro che tutti noi abbiamo conosciuto qualcuno fortemente convinto che l’unico modo per apprezzare qualcosa è il prendervi parte nel “modo giusto”, l’unico modo consentito. Quando ero più piccolo ero un forte sostenitore di questa mentalità in quanto mi sono trovato circondato da gente che mi ha instillato nel tempo delle aspettative su come bisogna giocare: tutto deve essere fatto al meglio possibile, alla difficoltà più alta, nel modo più difficile. “Non puoi scegliere la classe Ingegnere in Operazione Metrò”, “Ma a giocare Kingdom Hearts a Facile siamo bravi tutti”, “Non dirmi che sei uno di quelli che salva prima di ogni Superquattro?”. Nel mondo videoludico più mainstream esiste questa idea del giocare nel “modo giusto” come se esistesse un modo solo di giocare. Ma perché io dovrei vivere l’esperienza nei termini definiti da altri affinché la mia opinione abbia un valore?

Nell’aprile 2019 girava per la rete un meme interessante nato da un tweet di commento all’articolo di PC Gamer su Sekiro: Shadows Die Twice dove l’autore dice di non sentirsi in colpa per aver utilizzato dei trucchi per poter battere il boss finale. Il commento è il seguente:

“You cheated not only the game, but yourself. You didn’t grow. You didn’t improve. You took a shortcut and gained nothing. You experienced a hollow victory. Nothing was risked and nothing was gained. It’s sad that you don’t know the difference.”

Quando anche un account ufficiale rafforza tramite i meme la normatività dei “Veri Gamers”

Questa citazione è molto problematica perché riflette perfettamente la pressione di normatività del mondo videoludico e questo autore è trattato come se avesse tradito se stesso cercando una scorciatoia per completare il gioco e, nel tradire se stesso, ha rinnegato la sua identità di videogiocatore. Quel commento ha un forte sottotesto di “non sei uno di noi, e non sai di non esserlo, perché altrimenti non ti sentiresti legittimato a fare quello che hai fatto”.

L’essere videogiocatore è trattato da molti come un gruppo esclusivo, un’identità che viene protetta creando delle definizioni identitarie molto chiare: o sei uno di noi e rispetti le leggi non scritte, o non sei un vero Gamer e la tua opinione non è valida. Questo giornalista viene insultato e sminuito da gruppi di persone che cercano di rafforzare la propria posizione come veri giocatori che apprezzano a pieno il media denunciando e sminuendo coloro che invece non fanno propri tali valori. Io invece dico che ha fatto bene.

Reggie Fils-Aimé, allora presidente di Nintendo of America, durante l’evento Nintendo per l’E3 del 2017, ha detto:

“The game is fun. The game is a battle. If it’s not fun, why bother? If it’s not a battle, where’s the fun? It’s a test that you pass or a quest that you fail. A race against time. Fun and battle always lock together. But the game is also something else. It’s a journey; a passport to new worlds, maybe even an odyssey. A look, a feel, an exploration, close your focus and open your mind.”

Abbandona il completismo, accetta il gelato.

Il videogioco è la tua avventura caro lettore, la chiave è la tua avventura. Non devono essere gli altri a decidere come tu debba o possa utilizzare il tuo tempo. Vuoi usare un action replay per avere come starter quel particolare Pokémon che non puoi trovare prima della quarta palestra? È tuo diritto. Ritieni che abbassare la difficoltà sia meglio di spendere ore a fare farming di esperienza per battere un boss? È la scelta giusta. vuoi giocare a un gioco come vuoi tu? È la tua avventura e sei tu a decidere come viverla.

Ora, non intendo dire che cercare attivamente di completare i giochi alla difficoltà massima sia una cosa deplorevole di per sé, perché se questo è ciò che vuoi fare allora stai facendo la cosa giusta; ma ritengo sia importante capire dove il desiderio si ferma e la pressione sociale prende il suo posto. Dico tutto questo a chi sta leggendo perché il poter superare le aspettative normative che vengono interiorizzate è molto difficile. Ho passato anni a cercare di giocare i giochi nel modo giusto, completare tutto alla difficoltà più alta spesso preso dalla frustrazione. Non riesco ad allontanare dalla mia mente tutto il set di aspettative che circondano i “Veri Gamer”. Vedete questo come un avvertimento e una richiesta: l’avvertimento è quello di rendersi conto di cosa si desideri da un videogioco e cosa si crede di volere; la richiesta è molto più importante: ribadite anche ai vostri amici la legittimità di ciò che vogliono, ricordate spesso di giocare come si vuole, dite a tutti che se non vogliono darsi al completismo va bene, sottolineate come questo hobby deve essere preso come tale e non serve frustrarsi per poter essere dei “veri Gamer”. Questo è importante ed è l’unico modo che abbiamo per far perdere potere alla normatività tossica.

Crash Bandicoot 4 è a prendere polvere sullo scaffale e sono fiero di aver deciso di non completarlo.