La recensione di Pokémon: Let’s Go!, fatta col cuore

Fin dall’uscita del primo trailer, Pokémon: Let’s Go! ha diviso gli appassionati in due categorie molto distanti tra loro. Da una parte gli aficionados, i fan più o meno hardcore, che gridano tuttora allo scandalo, considerandolo il gioco iniziatore del tracollo dell’intero brand; dall’altra molti ex fan di vecchia data che, avendo sperimentato solo la prima generazione e schifando qualsiasi cosa uscita dal 1999 a oggi, hanno visto Pikachu sulla copertina del gioco e hanno pensato “beh, c’è Pikachu, è la primissima avventura con una nuova grafica, devo averlo assolutamente!”. Bianco e nero, nessuna scala di grigi. E allora di cosa c’è bisogno per poter analizzare correttamente questi giochi? Un occhio oggettivo e fiscale? Oppure bisogna seguire più il cuore e cercare di calarsi completamente nell’avventura in giro per Kanto, ancora una volta?

La verità, come (quasi) sempre, sta nel mezzo. Appena ritrovatomi il gioco tra le mani (per la cronaca, versione Eevee), ho capito di dover affrontare questa “nuova” grande avventura cercando di godermi al massimo ogni passo, respiro e sensazione da un gioco che, in passato, non sono riuscito a godermi appieno. È fondamentale qui una premessa che riguarda la mia esperienza personale con la serie: il mio primo gioco Pokémon fu Zaffiro, nel 2002, e recuperai la generazione di Rosso e Blu giocando proprio quest’ultimo nel 2013, poco prima dell’uscita di X e Y. E, detto francamente, non mi divertii. Ero ormai troppo abituato a uno stile grafico di qualità superiore e la lentezza del gioco era difficilmente sopportabile. Insomma, probabilmente la mia età non più fanciullesca non mi consentì di trarre quelle emozioni che seppero essere magnetiche per i bambini e i ragazzi che le sperimentarono nel secolo scorso, e proprio per questo ho deciso di affrontare Let’s Go con un piglio diverso, imponendomi di mettere a tutti i costi da parte le mie riserve verso il gioco, peraltro molto forti. Dopo aver inserito la cartuccia di Pokémon: Let’s Go! nella Nintendo Switch, ho dunque premuto il tasto d’avvio, con un sorriso sulle labbra, pensando: “Un nuovo gioco dei Pokémon, acciderbolina! Giochiamo!

Attenzione, potrei non aver realmente esclamato “acciderbolina”.

Avviso ai naviganti: come avrete già capito, sarà una recensione/resoconto che lascerà molto spazio all’esperienza e alle osservazioni personali, ma il giudizio finale non ne subirà le influenze. Almeno non eccessivamente.

Partiamo con il resoconto. Scenetta iniziale, il Professor Oak ci accoglie nel suo mondo, il nostro mondo. Diamo un nome anche al nostro rivale, che per una legge non scritta deve possedere il nome più brutto e indecente che un essere umano possa mai avere ideato.

You had my curiosity, now you have my attention.

Il Pokémon iniziale, che dobbiamo catturare, è ovviamente (per me) Eevee. Il gioco ci mette quindi subito di fronte al cambiamento più grande mai apportato al gameplay da quando esiste la serie: il combattimento con i Pokémon selvatici non esiste più. Effetto Pokémon GO, ovvio. Provo quindi, proprio come nel gioco mobile, a far roteare la ball prima di lanciarla, per darle effetto: la sfera vola subito via dal mio Joy-Con e si spalma a terra, facendomi una sonora pernacchia. Ritento, capendo subito che sarà dunque persino più semplice di quanto pensassi. Basta “lanciare” il controller al momento giusto, tenendo la traiettoria rettilinea. Cattura al secondo lancio con risultato Eccellente. E poi un brivido, una strana sensazione: il nuovo sistema di cattura mi piace. Il brivido era di terrore, poiché… non mi piace che questo metodo mi piaccia.

Pian piano ci faccio l’abitudine e l’erba alta non ha più segreti, anche perché i Pokémon si vedono camminare nell’overworld. In Pokémon: Let’s Go! gli allenatori sconfitti, oltre a una quantità di denaro, regalano Poké Ball. Buono, ci sta, ho sempre pensato alle sfide tra allenatori come a un confronto leale e sportivo e l’aiuto a fine lotta è qualcosa di tangibile, che trascende dal vil denaro. Passano i percorsi, Bosco Smeraldo esplorato in scioltezza, arriviamo da Brock. Il mio Eevee conosce Doppiocalcio, quindi posso entrare. Piccolo appunto: è odioso il modo in cui il gioco vuole aiutarti a tutti i costi, ma allo stesso tempo soddisfare dei requisiti per poter entrare nelle palestre non è di per sé una cattiva idea. Spero venga riproposta nei prossimi titoli, magari con delle quest secondarie degne del loro nome.

“Ehi.” “Oh.” “Sì, mi nascondo dietro questa roccia.” “Si, uhm…perché lo faresti?” “Beh, la padrona di casa ha un Dugtrio femmina…”

Brock è una mera formalità. Ne sono convinto, la condivisione dell’esperienza per tutta la squadra è una piaga da debellare: qui si guadagna anche se non si combatte, basta catturare Pokémon. Ma questa situazione si è creata per provare a risolvere un problema che risale all’incirca a 15 anni fa (e fu forse il motivo principale del calo di successo dei JRPG): il farming. Quasi nessuno ha tempo e/o voglia di correre per l’erba alta a cercare Pokémon che verranno trattati come carne da macello in funzione di qualche livello supplementare per la nostra squadra. In Pokémon Rubino e Zaffiro era stato introdotto il Condivi Esperienza, grazie al quale solamente un Pokémon poteva trarre beneficio delle lotte del suo compagno “titolare”. Era un po’ come se il maestro si esibisse per aiutare il suo allievo nella crescita e, una volta raggiunto un buon livello, quest’ultimo passasse a sua volta il testimone a un altro compagno più debole, e così via. Aveva perfettamente senso. Ma in Pokémon: Let’s Go! si arriva al problema opposto: livellare è troppo facile.

Ma questo nuovo modo di condividere esperienza è la realtà dei fatti e imparo a conviverci facilmente, cercando di base di catturare meno Pokémon possibile. Faccio esperienza con gli allenatori, che sono tutti di una facilità disarmante. Addirittura dubito se comprare o meno il Magikarp extralusso da 500 dollari. Lo prendo, alla fine Gyarados è pur sempre una delle migliori creazioni mai realizzate da GAME FREAK. E Magikarp è troppo una pippa per non volergli bene.

Arrivo al Monte Luna e finalmente il Team Rocket. Con Jessie e James, per giunta. Ora qui ci starebbe bene la clip da Bojack Horseman “Cos’è questo, un episodio crossover?” e giù di risate preregistrate. Qui ho compreso una cosa fondamentale, che mi ha fatto affrontare il resto di Pokémon: Let’s Go! con uno spirito molto diverso: “Questo è un gioco per bambini, poffarbacco.

Attenzione, potrei non aver realmente esclamato “poffarbacco”.

Sì, lo so, ho scoperto l’acqua calda. Ma con una variante importante, parlando di Jessie, che ci tengo a segnalare: da quando ho giocato per la prima volta a Pokémon X e Y mi son reso conto di un tratto molto distintivo nei nuovi giochi Pokémon. Ho avuto la fortuna di partecipare ad alcuni eventi di Nintendo come promoter e ambassador e ne ho approfittato per parlare anche della serie Pokémon con tutti i curiosi che volevano provare i giochi disponibili in demo (importante: non prendete le prossime parole con la valenza di un sondaggio ISTAT, ma solo come rapide chiacchierate con persone che andavano dai 4 ai 30 anni). Sia i giochi di sesta che di settima generazione, oltre ovviamente ai Pokémon: Let’s Go!, piacciono moltissimo alle bambine. Motivo? L’estetica degli ambienti e dei personaggi, lineamenti rotondi e personaggi femminili maggiormente al centro degli eventi. Ricordo in particolare la risposta di un ragazzo che ha giocato a Zaffiro Alpha assieme alla sorella di sette anni: “Lei è rimasta folgorata da Ada, perché è carina e perché ha fatto cambiare idea al cattivo.

Tolto il fatto che così sembro una di quelle brutte persone che stanno fuori dagli asili per vedere le giovani madri andare a prendere i pargoli, il punto rimane importante. In passato, il pubblico femminile non è mai stato particolarmente attratto dai Pokémon ed è un territorio ancora inesplorato per molte categorie videoludiche. Negli ultimi anni le bambine e le ragazze hanno cominciato ad avvicinarsi molto di più alle console o ai giochi che non prevedano l’esclusivo utilizzo di uno smartphone, soprattutto grazie ad alcune figure provenienti da YouTube che, piacciano o meno, fanno risultare i videogiochi come fruibili a tutti e non esclusiva di nerd ciccioni e dalla scarsa igiene. Con solo qualche accorgimento grafico e pochi dialoghi ben studiati, gli ultimi giochi Pokémon hanno incrementato l’attenzione da parte dalle giovani videogiocatrici. Ribadisco, nessun dato ufficiale, nessuna teoria gender da tirare in ballo, ma solo avendo tastato il “paese reale” e il piccolo mondo che circonda chi vi sta parlando.

Il Dr. Nowzaradan mentre giudica un paziente incapace di passare attraverso le porte della sua clinica.

Torniamo a Pokémon: Let’s Go!, che è meglio. Anche perché c’è Misty da affrontare a Celestopoli. Ovviamente spazzata via in meno di un minuto, senza le animazioni questa lotta sarebbe durata circa 15 secondi. Poco dopo, mi regalano un Charmander. Così, di botto, senza senso. Scindiamo Bill dalla sua fantasia furry (povero Nidorino…) e asfaltiamo anche una recluta del Team Rocket. Fortunatamente non hanno la frusta come nella versione originale. A dire il vero, la versione femminile potrebbe anche essere una discreta waifu, ma questo articolo non può essere vietato ai minori di anni 18, per cui non nominerò più questo tema. Forse.

Aranciopoli. Squirtle gratis. Così, di botto, pure lui. Che però gradisco molto, le tartarughe mi piacciono molto più delle lucertole e delle rane. A proposito, Venusaur, quando è assegnato per seguirvi, salta davvero come una rana. È la cosa più disturbante che abbia mai visto nella mia intera carriera videoludica. Ah sì, sconfiggo il Lt. Surge con un Dugtrio catturato nella Grotta Diglett (si, un Dugtrio, non mi andava di livellare un Diglett). Per arrivare nella palestra, in Pokémon: Let’s Go! il Pokémon iniziale (Pikachu o Eevee) deve usare la tecnica di Taglio, che devo ammettere sia molto carina nel suo apprendimento: per questa, così come per quelle future, Pikachu e Eevee s’impunteranno per apprendere la tecnica nonostante l’istruttore la voglia insegnare solo ad allievi umani.

Un modo per far risaltare il ruolo della nostra spalla, tutto sommato gradito.

Più avanti nel gioco, dopo innumerevoli allenatori che partono al nostro assalto che neanche i promoter della Tim, faccio la conoscenza di Lorelei, una dei Superquattro, che mi salva da alcune reclute Rocket e mi guarda ammaliante dal dorso del suo Lapras. Grazie mille signorina, ma sono un bimbo di dieci anni, posso lottare contro la mafia ma per altre esperienze devo ancora aspettare. Entro nel Tunnel Roccioso, sto per catturare un Graveler quando all’improvviso mi ricordo che non esiste la GTS per Let’s Go e lo mando a quel paese. Arrivo a Lavandonia e, senza esagerare, la colonna sonora è stupenda. Una rielaborazione leggera ma tetra al punto giusto, rimango fermo almeno due-tre minuti per ascoltarla.

Non ricordo praticamente nulla della medaglia presa a Azzurropoli e del rifugio Rocket, quindi torno subito sulla vicenda del povero Cubone piangente e solitario. Assieme ai Fantallenatori, con la loro faccia da pesce lesso alla Slowpoke, i Medium della Torre Pokémon sono forse gli allenatori dal design più riuscito. Vestiti curati, sguardo vitreo, sembrano infestati essi stessi dai Pokémon spettro che allenano. Complimenti al designer.

Non so voi, ma io ora so quale cosplay portare alle prossime fiere.

La cutscene di Cubone che saluta sua madre, la Marowak finalmente liberata dal giogo che teneva bloccato il suo spirito a questo mondo, è una delle più belle e cariche emotivamente mai viste nell’intera serie dei giochi principali, assieme al ritorno di Floette nell’epilogo di X e Y. Ma sono io che mi emoziono con poco e ho la lacrimuccia facile, quindi non fateci troppo caso.

Altro che Simba e Mufasa…

A Zafferanopoli scelta cruciale tra Hitmonlee e Hitmonchan. Penso: “Jackie Chan è un simpaticone, Bruce Lee ha vinto contro Chuck Norris e Chuck Norris non s’infama. Prendo Hitmonchan.” Ah, c’è il simpatico rivale da prendere a sberle, come poi tutto il Team Rocket. Si fa tutto in un’ora e una ventina di imprecazioni verso l’Altissimo e Onnipotente Arceus, perché non ricordo il labirinto della sede della Silph e sbaglio strada almeno una dozzina di volte. Almeno alla fine posso prendere Giovanni a pedate. Forse questo è stato il momento più difficile dell’intera partita, dato il livello abbastanza alto di alcuni Pokémon avversari e il mio essere leggermente sottolivellato, e ho persino rischiato il game over, salvo poi cavarmela con l’aiuto di Nostro Signore, “Lord Helix” Omastar e il suo attacco pompato alle stelle.

Sabrina viene distrutta con Sgranocchio di Gyarados (questa frase suona davvero male) e Koga terremotato da Dugtrio come nemmeno il sisma in Irpinia. Si va dunque avanti veloce, ma a un certo punto mi ricordo che ci sono tre piccion- UCCELLI leggendari da catturare. Torno indietro e m’inoltro nella Centrale Elettrica, dove m’imbatto in Zapdos. Bella la cutscene, se devo essere sincero un eventuale incontro tra me e un Pokémon leggendario me lo sono sempre immaginato così, musica del boss finale che parte dal nulla compresa. Bello lui, bello anche il fatto di doverlo sconfiggere prima di poterlo catturare. Quest’ultimo è un dettaglio che mi piacerebbe molto nel caso dovesse essere riproposto, magari con una difficoltà diversa nella sfida e nella cattura (il raid Dynamax è un inizio, ma non basta). Dopo aver vinto l’ultima medaglia sull’Isola Cannella (con Omastar ancora mattatore), mi reco alle Isole Spumarine, dove trovo Articuno. Niente da fare, è lui il migliore del trio, per classe, eleganza e design. Più tardi catturerò anche Moltres, che non mi è mai piaciuto, ma che ha la cutscene probabilmente più bella dei tre. Mi son divertito a vedere come mi osservasse curioso, avvicinandosi cauto al mio personaggio.

Fa uno strano effetto vederlo avvicinarsi più come un gattino che come un lanciafiamme vivente.

Ma prima, finalmente, mi sbarazzo una volta per tutte di Giovanni, per l’ultima medaglia. Gyarados se lo mangia in poco tempo e la pace e la serenità sono dunque ristabiliti a Kanto. Devo essere sincero, mi aspettavo una caratterizzazione un minimo più marcata del personaggio di Giovanni e in generale del Team Rocket in Let’s Go. Non hanno mai dato la sensazione di essere dei veri malvagi, ma solo teppistelli agli ordini di un capo tiranno ma abbastanza svogliato. Molto meglio in Ultrasole e Ultraluna, dove la sua sola presenza è stata infinitamente più carismatica, anche grazie al “Tornerò!” in stile Terminator alla fine della missione contro il Team Rainbow Rocket.

La Via Vittoria si dimostra quello che temevo: senza una memoria forte sui titoli “originari”, questa grotta labirintica si dimostra una spina nel fianco assai dura da estirpare. La cattura di Moltres da un senso al tutto, ma quando infine arrivo all’Altopiano Blu esulto come Federer alla vittoria dell’Australian Open 2017.

“Ce l’ho fatta…e senza le soluzioni guidate!”

Ecco, qui c’è un problema. Tutto bello e meraviglioso, il cammino si è compiuto, un bimbo sta per affrontare la più grande sfida esistente per un allenatore. Eppure… manca di epicità. Non c’è pathos, non c’è quel brivido di esaltazione che arriva nel momento decisivo. In questo senso, i giochi precedenti erano molto diversi: già Sole e Luna, nonostante i numerosi difetti, riuscivano quantomeno a caricare il confronto coi singoli Superquattro, facevano venir voglia di sfidarli e distruggere le loro squadre. Qui nulla. Si sa già come andrà a finire e, soprattutto, in che modo. E non parlo della scontata e famigerata sfida contro il proprio rivale, ma della sua facilità.

Cosa penserebbe il me bambino o ragazzo, che magari si approccia per la prima volta a una situazione di questo genere? Ricordo bene la mia “prima volta”, su Zaffiro o su Diamante. Salvavo la partita ogni due passi, nei corridoi prima di entrare in una stanza, tanta era la paura di perdere. Ma al tempo stesso ero carichissimo, diventare il Campione era la mia missione, lo sentivo quasi come fosse un atto dovuto. E qui invece?

Ho salvato il mondo e fatto sciogliere la più grande organizzazione criminale della regione, dov’è la mia medaglia con la bandiera?

Lorelei, Bruno, Agata e Lance non sono un ostacolo degno di questo nome. Arrivo alla lotta finale, quella contro il mio amico-rivale, Berlusconi (oh, se ne è valsa la pena dargli questo nome) e anche qui le musiche sono eccellenti, dei remaster davvero di alta qualità. Pidgeot sarebbe anche forte, se non avessi Omastar nel mio team. Tre minuti e la battaglia finisce, sono il nuovo Campione della Lega Pokémon di Kanto. E qui la cosa che più di tutte mi ha fatto storcere il naso: in Rosso e Blu il nostro rivale era un bulletto che non perdeva mai l’occasione di farci presente quanto fosse superiore. Ora è un amico che ci accompagna, ci aiuta in alcuni casi. E il cambiamento ci può stare, ma…dov’è la morale più grande che la prima generazione di questa fantastica serie di giochi ci ha lasciato? Ricordate come si rivolgeva il Prof. Oak al nostro rivale, una volta sconfitto? “Sai perché hai perso? Perché non hai dimostrato ai tuoi Pokémon fiducia e amore. Senza tali valori non diventerai mai un Campione!” Era una lezione, un ammonimento per tutti. Gli arroganti e i bulli non faranno mai nulla di buono nella loro vita.

Premiazione, sigla finale, ritorno a casa. Ho ancora un Pokémon da catturare, il più forte. Mewtwo mi aspetta in fondo alla Grotta Celeste e mi accoglie con una cutscene molto bella ma davvero breve (quella vista nel trailer, per intenderci). È la prima vera battaglia dall’inizio dell’avventura: il suo livello è 70 e la mia squadra non è decisamente adeguata ad affrontarlo. Ma lo sconfiggo miracolosamente, dopo averlo paralizzato. In più, entra alla terza Ultra Ball. Quel giorno avrei dovuto giocare al Superenalotto.

“VIECCE” esclamò Mewtwo, svegliato di soprassalto nel suo appartamento alla Garbatella.

Il viaggio per me finisce qui. Non crederete davvero che abbia affrontato tutti i 150 allenatori disseminati per la mappa, ognuno specializzato in un Pokémon differente? Questa missione secondaria è follia pura, inconcepibile anche solo la sua creazione. Un po’ come scovare tutti i 999 Korogu in Breath of the Wild, bellini loro eh, ma i premi sono pur sempre delle cacchette (nel vero senso della parola). Snobbo anche le sfide contro Rosso e Blu/Verde, non mi va nemmeno di andarli a cercare, neanche con una guida sottomano. E qui mi rendo conto del più grande difetto di questo gioco: la saturazione.

Una volta sconfitta la Lega Pokémon non ho più sentito la voglia di giocare, mi sono sentito appagato, soddisfatto e un po’ annoiato, e ho appoggiato i Joy-Con alla scrivania. Un gioco sufficiente, ma non fatto con sufficienza. Da una parte è stato fatto un lavoro egregio sotto molti punti di vista, dalle cutscene alle musiche (quasi sempre perfette), dal game design ai modelli dei personaggi. Ma manca di mordente, rimane fiacco e si trascina stancamente verso una fine ovvia: non lo giocheremo mai più dopo averlo concluso. È esattamente il gioco che doveva essere, o meglio, come è stato scelto che sarebbe dovuto essere.

Non saprei dire ancora adesso se mi abbia fatto bene giocare Pokémon: Let’s Go! e riscoprire i fondamenti di questa serie follemente amata o se, al contrario, arrivare alla fine dell’avventura possa essere stata considerata una liberazione, un dente cariato a cui ero irrazionalmente affezionato che viene tirato via con dolcezza. Ma di una sola cosa posso essere certo: mi maledirò per sempre per non aver giocato RossoFuoco e VerdeFoglia.