Recentemente sbarcato su Nintendo Switch nella sua versione definitiva, Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta è uscito il 29 luglio 2017 in Giappone ed il 4 settembre 2018 nel resto del mondo per PlayStation 4 e PC, passando relativamente in sordina rispetto a giochi più celebri usciti nello stesso anno, quali Red Dead Redemption 2 e God of War. Viene candidato a miglior RPG dell’anno ai The Game Awards 2018 ma viene battuto da Monster Hunter: World di Capcom, in cui recentemente è stato implementata l’enorme espansione Iceborne, che sta generando enormi introiti permettendo al gioco in questione di diventare il più venduto di tutta la saga. Nonostante sia passato quindi come un gioco secondario, i più esperti non se lo sono lasciato sfuggire e i voti lo dimostrano: 3.91/5 su Glitchwave, 86/100 su Metacritic e, per rimanere all’interno del nostro Paese, le principali testate videoludiche italiane non sono mai scese sotto il 9/10. Perché quindi questo gioco è così importante e, allo stesso tempo, così nascosto? È ora di scoprirlo.
In questo articolo utilizzerò solo foto tratte dalla mia personale esperienza di gioco su PS4: nella foto potete vedere il trofeo che testimonia il raggiungimento di tutti gli obiettivi, il platino.
Partiamo dal principio. Quando il 28 marzo 2018 venne annunciato lo sbarco del gioco anche in Occidente (e soprattutto per PS4), ai cari vecchi giocatori non è potuta non scendere una lacrima: dopo svariati titoli solo su DS, mai usciti dal Giappone o spin off di vario genere, gli orfani di Dragon Quest VIII: L’odissea del re maledetto hanno visto concretizzarsi un sogno dopo dodici anni di speranza. Le similitudini con l’ottavo capitolo della saga, uno dei JRPG più acclamati di sempre dalla nicchia, sono tantissime già dal trailer: le cattive maniere ed il seno imponente di Jade ricordano molto Jessica, il vecchio Rob sembra che sia messo lì solo per ricordarci della nostra scorsa avventura al fianco di Chen Mui, Silvando è palesemente una proiezione di Angelo. Le citazioni a Dragon Ball, essendo Akira Toriyama il principale disegnatore, sono ormai easter egg necessari: il nonno che alza l’eroe bambino come Nonno Gohan con Goku, il Re di Hellador che è una copia sputata del Dr. Gelo, il protagonista tremendamente simile a Trunks e mille altre ancora rendono l’esperienza a Erdrea un viaggio oltre i confini del titolo stesso. Se quindi il gioco suscita istintivamente bei ricordi nei giocatori di vecchia data, ora esaminiamo perché questo gioco è in grado di stupire anche i neofiti della saga o del genere, analizzando le sue caratteristiche e facendo anche il paragone con il già citato Dragon Quest VIII, un videogioco eterno.
Colori, emozioni ed una notevole vena artistica sono costanti sempre presenti nei giochi Square Enix.
Il gameplay del gioco è decisamente tradizionale, con i soliti scontri a turni contro orde di nemici sempre fantasiosi, anche se questa volta ben visibili nell’overworld: dai classici slime si passa a slot machine divoratrici, passando dai più tradizionali draghi e viverne fino ad arrivare a nemici più originali come peperoni armati, ceppi di alberi ostili o piccoli cinghiali che indossano un enorme cappello. Il gioco è un tripudio di colori sin dalle prime battute, rendendo questo mondo un unione formidabile di ironia, crudeltà, spettacolo ed ostilità. Ciò che forse diversifica maggiormente l’esperienza di gioco rispetto ai capitoli precedenti è la sua facilità: l’opera, infatti, è molto meno difficile dei suoi predecessori (probabilmente troppo). Questa scelta da un lato vuole premiare l’importanza della trama a discapito della sua complessità artificiale, dall’altra vuole sminuire il farming ed il grinding tipici degli RPG, in particolare quelli di matrice nipponica (uno su tutti Monster Hunter). Facendo riferimento a dati pratici, in Dragon Quest VIII l’Eroe sblocca la sua mossa più potente solo al livello 65 e rende il combattimento con il boss finale equilibrato, mentre in Dragon Quest XI non è difficile ritrovarsi alla fine del gioco con tutto il party al livello 99 dopo alcune ore di farming: facendo riferimento alla mia esperienza, se nel viaggio a Trodain finii la mia blind run in circa 145 ore di gioco con l’Eroe al livello 65, nella mia avventura ad Erdrea ho impiegato 112 ore per platinare il titolo con tutto il party al livello massimo. Consapevoli che questa scelta avrebbe potuto far storcere il naso a diversi giocatori, Square Enix ha comunque dato la possibilità di scegliere diverse modalità ad inizio avventura, tra cui proprio la difficoltà aumentata. Per concludere le differenze a livello di puro gameplay, ricordiamo la presenza dell’albero delle abilità, che personalmente non mi ha fatto impazzire, la forgiatura, che continuando i parallelismi vede sostituire il caro vecchio pentolone alchemico di Re Trode, e lo stato pimpante, che equivale alla tensione di Dragon Quest VIII ma più casuale e meno matematica.
!!! QUESTA FOTO CONTIENE UNO SPOILER, GUARDALA SOLO SE HAI FINITO IL GIOCO. !!!
Il Party di Dragon Quest XI: da sinistra a destra abbiamo Erik, Serena, Hendrik, Veronica, Silvando, Rob e Jade.
Per quanto riguarda la trama, la storia di Erdrea e dell’Albero della Vita non è certo innovativa e originale ma, probabilmente, è meglio così. Quello che colpisce di Dragon Quest XI è la bellezza dei suoi personaggi, il loro rapporto, i problemi familiari, le dinastie di cui fanno parte e i loro obiettivi personali che vanno oltre al classico “salva il mondo”. C’è chi cerca vendetta, chi deve semplicemente adempiere al proprio destino o chi non ha più nulla da perdere: tanti personaggi ognuno diverso dall’altro che, unendosi, si amalgamano alla perfezione, riuscendo ad anteporre il bene del gruppo a quello del singolo. Vediamo diversi protagonisti esplorare il proprio io svuotatosi in seguito alla perdita di un familiare, altri spinti dalla verità nascosta che si cela dietro a traumi avuti da bambini, altri ancora vorrebbero solo ricongiungersi ai fratelli smarriti di cui non si hanno più tracce da anni. Al di là dell’importanza psicologica che questa diversità può dare ad un gioco come questo, la varietà di personaggi permette al giocatore di imbattersi in continue missioni secondarie che rendono il mondo di gioco pieno di sorprese, specialmente nel post-game e in seguito ad alcuni eventi chiave della trama, i quali daranno al giocatore una validissima scusa per rivisitare gran parte di Erdrea in una sorta di backtracking giustificato ma soprattutto non scontato. Per quanto riguarda il mondo in sé, esso è molto variegato ed ospita campi nevosi, ghiacciai, deserti e vulcani, senza ovviamente dimenticare l’immenso oceano. Se Dragon Quest VIII era un’openworld bello e buono una volta sbloccata la nave, questo nuovo capitolo della saga è più guidato dalla trama e diviso in regioni, dando meno libertà di scelta al giocatore di esplorare il mondo a suo piacimento.
Mordegon è il classico cattivo che vuole conquistare il mondo e inondarlo di oscurità.
Ciò che rende più unico che raro Dragon Quest è la sua ironia assolutamente naturale e mai forzata. Un esempio? Porto Trinacrio, una piccola cittadina a sud-est di Erdrea in cui gli abitanti parlano dialetto siciliano. L’Italia, inoltre, sembra essere una nazione particolarmente divertente da prendere in giro (come dar loro torto?), data la presenza anche di Gondolia, una città costruita sulla falsa riga di Venezia, luogo visitabile via gondola attraverso i canali che dividono le strade della città, il cui capo è il Doge Rotondo. Sì, sembra un nome di Vento Aureo (la quarta stagione di Jojo’s Bizarre Adventures), ma per i giapponesi non tutta l’Italia è Giorno Giovanna & Co.: Petruzzu e Rotondo sono il seguito di quello che Dragon Quest VIII aveva avviato con Morrie, la spudorata copia di Mr. Satan che era solito intramezzare l’inglese con “buongiorno”, “ragazzo”, “arrivederci” ed altre parole italiane, il tutto con un pessimo accento sardo stereotipato. Potrei anche parlare delle mucche che predicono il meteo o delle esperienze puff-puff (un modo carino per censurare la prostituzione), ma mi soffermerei davvero su cose troppo futili, seppur divertenti.
A Porto Trinacrio parlano in dialetto siciliano pure le sacerdotesse.
Contrapposta all’ironia lampante e genuina del gioco e più in particolare agli studi di traduzione (perché certe chicche cambiano di nazione in nazione, dato che un francese o un tedesco non capirebbero l’ironia dietro Porto Trinacrio), troviamo invece una lunga e terribile lista di eventi lugubri che portano disperazione, agonia e sofferenza. La morte di personaggi importanti segna tragicamente la crescita emotiva di altri, così come la guerra trascina con sé perdite e dolori di ogni tipo ed è pronta a disperdere i suoi macabri doni in tutto il regno. Ad un mondo colorato e vivace si oppone la crudeltà di uno più che mai disumano e senza scrupoli, in cui il male ci mette un secondo a conquistare anni e anni di bontà e volontà d’animo. Nonostante ciò, questo ultimo capitolo targato Dragon Quest è probabilmente meno impattante dell’ottavo, il quale vedeva atti veramente brutali nascosti da una filosofia più banale. Le tragedie rimangono quindi parte integrante della costruzione del gioco e una costante nello sviluppo emotivo della storia e del giocatore, costringendo chi guarda a confrontarsi spesso con realtà più grandi di lui.
Un momento topico per la risoluzione di un trauma che attanaglia uno dei protagonisti.
A moderare la tragicità di alcuni momenti importanti è il design, che sembra solo essersi modernizzato senza evolversi più di tanto, quasi sicuramente per una scelta stilistica. Rendendo il gioco più “infantile” da un punto di vista grafico, infatti, anche i più piccoli possono usufruire completamente di questo stupendo prodotto, senza che l’eccessiva realtà prenda il sopravvento su una più naturale e nascosta melanconia che cosparge questo mondo così vivido e splendido, ma che sotto la superficie ha delle ferite molto profonde. Prendendola molto alla larga, questa direzione artistica è simile a quella di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, il quale non ha mai puntato al realismo quanto alla creazione di un mondo in tutto e per tutto funzionale, in cui la grafica è del tutto secondaria e a farla da padrone è il mondo stesso. Per concludere, in ambito artistico la colonna sonora, purtroppo, non è all’altezza delle precedenti e anzi i suoi momenti più alti sono reprise di temi celebri di Dragon Quest VIII, uno su tutti Heavenly Flight. Come se non bastasse, la colonna sonora totalmente orchestrata è un’esclusiva della versione su Nintendo Switch, privando i giocatori PS4 e PC di uno dei cavalli di battaglia di Dragon Quest e sostituendola con una deludente versione midi.
Se vi ricorda la Stanza dello Spirito e del Tempo di Dragon Ball Z, ricordatevi che la prima penna di questo gioco è comunque Akira Toriyama.
Dati di vendita alla mano, Dragon Quest XI è riuscito a conquistare il pubblico mondiale ancora una volta, con un totale di quattro milioni di copie vendute prima della versione definitiva uscita su Switch il 29 settembre 2019, un milione al netto in meno rispetto a Dragon Quest VIII, che è riuscito a essere apprezzato maggiormente oltre i confini del Giappone. Il gioco, infatti, ha avuto un particolare boom nell’isola, con due milioni di copie vendute (la metà) nei soli primi due giorni. Se il titolo del 2004 è diventato un punto di riferimento per tutti i JRPG successivi, questo seguito riesce a mantenerne viva l’atmosfera seppur modificandone i dettagli e migliorandone alcuni aspetti. L’avventura è totalmente nuova e i numerosi riferimenti non sono mai stucchevoli, rendendo più che mai viva l’attenzione del giocatore, sempre pronto a scovare particolari in grado di riportarlo all’ultima grande avventura targata Dragon Quest su console fissa. A testimoniare il successo del titolo, se vogliamo mettere i puntini sulle i, c’è anche la presenza dell’Eroe in Super Smash Bros. Ultimate, probabilmente il picchiaduro Nintendo più famoso e giocato degli ultimi anni.
Uno scorcio dell’interno del Monte Huji, un vulcano nella regione di Galoppoli.
In conclusione, Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta è un gioco che viene promosso quasi a pieni voti, dimostrandosi coinvolgente, studiato, divertente e serio al contempo: un’opera completa che però non riesce così bene a superare i confini del Giappone. Difficile dire se sia dell’ottavo capitolo della saga; Dragon Quest VIII: L’odissea del re maledetto è stato un gioco importantissimo per la storia dei JRPG e del videogioco in generale ma, al di là dei gusti personali, se c’è un gioco della serie in grado di tenergli testa, beh… è proprio questo.
Sì ok tu sei cinturanera però io sono un ’97 con ben pochi interessi nella vita e non esattamente contento di respirare. Sfogo la mia rabbia repressa contro Alola e Hidetaka Miyazaki.
L’ho preso su Switch qualche settimana fa. Finito tutto in circa 100h. Ora mi sto divertendo a completarlo al 100% potenziando anche tutti i personaggi in tutte le statistiche.
È un Capolavoro come non se ne vedevano da tempo.