Hyrule Warriors: L’era della calamità, il prequel che non è davvero un prequel del pluripremiato Breath of the Wild, è uscito il 20 novembre scorso portando con sé un sacco di nuovi contenuti, nuovi personaggi e… beh, un nuovo mondo. Letteralmente. Per cui, dopo le nostre guide a tema (fusione delle armi, personaggi vecchi, nuovi e segreti), eccoci quindi ad affrontare la cosa alla vecchia maniera: con una recensione. Forse un po’ troppo lunga, lo ammetto, ma direi che la colpa è tutta di KOEI e Nintendo che ci hanno offerto un prodotto stupendo per cui nutro sentimenti contrastanti. Insomma, preparatevi: si parte dalle cose belle per arrivare alle cose dubbie, passando per tutti i punti fondamentali, come gameplay, locations, personaggi e trama.
Un gameplay di tutto rispetto, letteralmente
Sarò sincera: all’inizio ero piuttosto scettica riguardo il gameplay, ma quando ho finito il gioco (circa 50 ore dopo) nemmeno mi accorgevo di non star più giocando a Breath of the Wild. Immagino sia questo quel che succede quando riesci a implementare magistralmente la maggior parte delle peculiarità di gameplay del titolo base in un’altra meccanica di gioco: e così questo musou a tema Zelda ha iniziato per me a scorrere con la stessa normalità e fluidità dell’originale, dopo solo poche ore, e alla lunga non mi sono più accorta della differenza. Premessa doverosa: prendete la mia opinione con le pinze; non avevo mai giocato un musou prima d’ora, ma il prodotto che mi sono trovata per le mani mi sembra comunque di fattura decisamente notevole; e direi che con questo Nintendo e KOEI hanno raggiunto il loro obbiettivo, visto che nel target de L’era della calamità ci sono anche i non-esperti del genere, proprio come me. Tra Tavoletta Sheikah, bacchette e mele mangiate al volo per recuperare vita ci si destreggia più che bene; Link e Zelda hanno più di uno stile di combattimento (menzione speciale per Revali e il suo stile in volo) e ogni singolo personaggio ha delle caratteristiche tutte sue, ben caratterizzanti e consone alla sua personalità. Ogni erede ha dei punti di contatto col suo Campione di riferimento, ma è giusto così e questo non riesce comunque ad intaccare la sua unicità. Vogliamo parlare di Yunobo che mangia arrocciosti per potenziarsi? O Sidon che si mette in posa? O la piccola Riju con la sua inseparabile Papizia e l’Elmo del Tuono? Il gameplay de L’era della calamità ci dice che ha imparato tutto quel che c’era da imparare da Breath of the Wild; e l’ha trasformato in qualcosa di nuovo, rispettando in tutto e per tutto la logica e le prerogative dell’originale.
Non solo ognuno usa la propria arma specifica, ma ad ogni personaggio è riservato un uso particolare di ogni funzione della Tavoletta Sheikah, a volte più simile a quello canonico, a volte più peculiare: Sidon ad esempio “batte” la Bomba Radiocomandata, o Teba “mira” con precisione ogni obbiettivo di Stasys; differenze piccole, ovviamente, ma che comunque contribuiscono alla build specifica di ogni eroe; e che dimostrano, soprattutto, la dedizione, la cura e l’attenzione messe nel costruire ogni personaggio giocabile.
Qualcuno si è lamentato della perdita di alcune caratteristiche di gioco, ma c’è poco da discutere: è una perdita fisiologica, e non ci si dovrebbe lamentare di quel che si è perso quanto ammirare quanto è stato conservato e quanto è stato variato per meglio adattarlo a questo tipo di gioco. Un risultato che è sinceramente ammirevole, e chi non riesce a vederlo, davvero, non può che farlo in malafede.
Le richieste della gente di Hyrule
A proposito di quel che è stato variato e adattato: L’era della calamità è riuscita a mantenere quell’elemento classico dei GDR, le missioni secondarie, riadattandole a piccoli intermezzi dal gusto narrativo tra uno scenario e l’altro sotto forma di richieste; e se la loro rilevanza potrebbe sembrare limitata esclusivamente alle meccaniche di gioco – senza di loro, infatti, possiamo scordarci nuove combo, nuove barre per la mossa speciale e tanto altro – le descrizioni dànno loro tutto un altro sapore. Sotto questa forma tornano tante piccole cose di Breath of the Wild: torna la missione dell’uccello bianco visto in volo verso il picco di Hebra, tornano i piccoli Rito che vanno ad esercitarsi nel canto alle Rocce della fratellanza, tornano le lezioni delle Gerudo su come comportarsi con i voy. Ma, soprattutto, calzano a pennello con i personaggi di riferimento: le richieste di Castonne offrono un momento di pausa dal dramma in corso, e hanno come obbiettivo quello di far sorridere i Korogu o creare coreografie; quelle di Re Rhoam, invece, si basano tutte sulla ricostruzione di Hyrule, oppure su come rimpolpare i fondi reali per evitare la crisi finanziaria; e poi ci sono tutte le richieste della gente comune, in tutta Hyrule: una bambina che vuole costruire una bambola, un mercante lontano da casa che ha nostalgia dei piatti della sua terra, un villaggio che vuole rinforzare le sue difese in vista della calamità o che vuole potenziare le linee commerciali con le altre zone del regno.
Può sembrarvi poco, se non l’avete giocato: ma vi assicuro che ritrovare tutte queste piccole chicche è semplicemente emozionante. Riconoscere i riferimenti a Breath of the Wild mi ha fatto sorridere ed è stato come ritrovare un vecchio amico (ogni riferimento a Transistor e alle emozioni che si porta dietro è assolutamente voluto). Vedere poi crescere la fiducia e la speranza della gente di ogni regione, invece, ha contribuito ineluttabilmente a creare quell’atmosfera di “Risorsa di guerra acquisita” in stile Mass Effect 3 che davvero si addice al periodo storico esplorato ne L’era della calamità: ogni singola azione conta, ogni piccolo contributo può fare la differenza nella lotta del regno contro Ganon… e nella nostra coscienza, quando entreremo nel Torrione principale del Castello di Hyrule per sigillare la calamità.
Quei difetti su cui non si può chiudere un occhio
Insomma: bello. Tornassi indietro nel tempo (come Terrako) lo ricomprerei e giocherei mille e mille volte, senza alcun dubbio… ma questo non significa che il tutto sia esente da critiche, anzi. Rimanendo nell’ambito del gameplay, infatti, non posso non toccare i punti dolenti del framerate e della telecamera: per quanto riguarda il primo, in alcune zone (specialmente quelle con specchi d’acqua, magari al tramonto, o quando piove) il calo di frame è davvero fastidioso; non così tanto da distruggere totalmente l’esperienza di gioco, ma diciamo che non auguro a nessuno di giocare la mossa speciale di Urbosa al centro della Selva Damsel, a meno che non voglia veder soffrire la propria Switch; per quanto riguarda la telecamera, invece, la situazione è davvero ingestibile in certi casi: pregate sempre di non ritrovarvi contro un lynel in un corridoio, o ci metterete una decina di minuti ad avere la meglio, senza capire assolutamente cosa stia succedendo e perdendo una quantità di vita francamente evitabile. On the bright side, per fortuna rispetto alla demo non si nota più quel demoralizzante calo nella qualità di texture passando dalla modalità dock a quella portatile.
Chi ha provato la modalità due giocatori, inoltre, ha ben presente la sofferenza che ho patito giocando su un 24″ in split screen con un singolo Joy-Con a testa: un’esperienza che definirla challenging è un eufemismo, con tutti gli oggetti e le funzioni della Tavoletta relegati ad un unico prompt SR + SL e la telecamera completamente incontrollabile. Servono almeno quattro Joy-Con (o due Pro Controller, o un mix delle due soluzioni) per avere un’esperienza di gioco soddisfacente.
Come ultimo punto, inoltre, vorrei far presente una questione problematica: quella delle mele. Un oggetto decisamente utile, specialmente se siamo giocatori alle prime armi, o se stiamo giocando in modalità difficile, a cui purtroppo è piuttosto difficile avere accesso: le mele infatti si possono ottenere solo negli scenari di combattimento, e una volta esaurite si può solo sperare di trovarne delle altre; è impossibile comprarle nelle pause tra una battaglia e un’altra, e questa scelta ha davvero poco senso. Specialmente in una Hyrule in cui il commercio è fiorente e ancora ci sono i contadini a lavorare duro per sfamare la grande popolazione del regno.
Insomma: bello questo gameplay, sì, rispettoso dell’originale e fatto col cuore, ma c’è ancora da lavorare su questi difetti che davvero fanno storcere la bocca e un po’ azzoppano un titolo dalla qualità altrimenti indiscutibile.
Una Hyrule più bella che mai
E Hyrule? Hyrule è… più bella che mai, davvero. Temevo che il passaggio da open world a singoli macroscenari avrebbe tagliato le gambe a quel senso di grandezza e di respiro (pun intended) che Breath of the Wild mi aveva saputo regalare. E invece già le prime immagini di gameplay mi avevano fatto ricredere: con meno luoghi da creare, e con abbastanza tempo a disposizione, ogni singolo ambiente è curato in ogni più piccolo dettaglio, anzi, forse anche più ricco dell’originale. Penso ad esempio al Castello, alla Cittadella Gerudo, che è ancora più vivace della sua versione di cento anni più tardi, e anche alla Città dei Goron o al covo degli Yiga, tutti riprodotti in scala fedelissima e quasi 1:1.
Dico quasi proprio perché qualche piccola differenza c’è: alcuni spazi molto piccoli sono diventati background (e quindi non raggiungibili), alcuni spazi piccoli sono diventati più grandi, alcuni spazi grandi hanno subito qualche modifica per creare ambienti più settorizzati – penso ad esempio alla Piana di Hyrule, che in Breath of the Wild non ha tutti quei rilievi rocciosi e (rovine di) fortificazioni; queste piccole modifiche tuttavia non stonano e rispondono tutte a ovvie necessità di gameplay: ci vuole spazio, per i combattimenti di massa, e allo stesso tempo è meglio evitare di creare ambienti troppo grandi per poter garantire la formazione di avamposti e così via. Pensate al crepaccio di Mortipher: vi sembrava così vasto in Breath of the Wild? Assolutamente no: era, letteralmente, solo un piccolo trivio. Per non parlare dei posti… “nuovi”: la bellissima fortezza di Akkala, di cui mi sono innamorata nella sua versione in rovina, e che ho amato ancora di più nella sua versione integra.
Precisione, ricercatezza, maggiore fedeltà possibile sono tutti gli ingredienti che hanno usato KOEI e Nintendo per creare L’era della calamità a partire dalle location di Breath of the Wild, e il risultato è davvero impressionante.
Una splendida opera corale
Ma basta girarci intorno: quel che brilla, assieme ad un gameplay (al 90%) senza macchia, è il roster di personaggi giocabili (e non) de L’era della calamità. Partiamo da un dato oggettivo: nel gioco troviamo più di 100 cutscene, comodamente rivedibili nella Galleria, per un totale di più di 2 ore di scene animate e doppiate, a fronte dell’ora scarsa raggiunta da Breath of the Wild nella sua versione base. Questo singolo dato già testimonia un’attenzione per storia e personaggi mai vista: se la Hyrule che abbiamo conosciuto nel 2017 aveva Link come singolo protagonista, accerchiato dalle ombre del suo passato – ombre decisamente rilevanti, sempre presenti, ma in background, alle sue spalle – questo titolo ha invece una base corale, che più si adatta alle sue necessità di gameplay e che meglio rispecchia la situazione. Nelle lande di Hyrule che hanno sofferto la distruzione della calamità Ganon abbiamo guidato i passi di un eroe solitario, (quasi) senza memoria, guidato solamente dalla voce di Zelda e dai pochi punti fermi stabiliti da quelle pochissime persone sopravvissute con lui; nella fiorente Hyrule prima della calamità, invece, c’è troppo spazio per un eroe solo e la scena si tramuta in un palcoscenico di ampio respiro, in cui più protagonisti possono avere il loro giusto spazio, sui vari fronti aperti nella regione, sempre in accordo con quell’atmosfera di scontro totale che così tanto mi ha colpito in Mass Effect 3 e che qui torna di nuovo. Ed ecco che c’è spazio per tutti… e per tutto: ci sono autentici momenti di comic relief, con Impa che bisticcia con Terrako o Link che mangia l’arrocciosto offertogli da Daruk; c’è Rovely in tutto il splendore rock e la sua ridicola abitudine di usare parole in inglese (difficilmente spiegabile, e forse anche troppo esasperata); c’è spazio per il dramma, la (presunta) morte di Re Rhoam, la consapevolezza di aver perso il controllo sui Colossi… e c’è spazio anche per la speranza e il riscatto, per le riunioni, per la determinazione.
Ci sono i Campioni, e questo lo sapevamo sin dai trailer, che si prendono il loro legittimo spazio; ma ci sono anche altri personaggi, un po’ inaspettati, che pretendono il loro posto sul palcoscenico: penso a Castonne e ai suoi fratelli Korogu, al monaco Myz Kyoshia che inaspettatamente corre a combattere al nostro fianco, e al Maestro Koga, che in questo titolo trova grazia e redenzione, presentandosi come lo spirito guida di ogni pigro e anziano dentro che si rispetti. Menzione speciale ovviamente per i quattro eredi dei Campioni, presenza assolutamente inaspettata (di cui parleremo dopo), che finalmente conosciamo un po’ meglio rispetto a Breath of the Wild, soprattutto nello svilupparsi del loro rapporto con i propri predecessori.
Non si tratta infatti solo dei singoli personaggi e del modo in cui vengono ritratti: L’era della calamità costruisce ogni suo protagonista proprio grazie al dialogo con gli altri, e li fa crescere davanti ai nostri occhi. Ci viene offerta la possibilità di assistere a preziosi scambi di battute che non dimenticherò: penso a quelle tra Riju e Urbosa, in cui la Matriarca del presente sostiene, motiva e rassicura la piccola Matriarca del futuro, così insicura e ancora fragile sotto tanti punti di vista; e quelle tra Sidon e Mipha, davvero emotivamente potenti, visto il contesto: se infatti per Yunobo, Teba e Riju i precedenti Campioni sono solo figure leggendarie, per Sidon la cosa è ben diversa; Mipha è sua sorella, e prima della sua scomparsa l’ha conosciuta bene, nella linea temporale da cui proviene.
Ma soprattutto, ci sono gli sguardi: il silenzio di Link non è mai stato così loquace, e tanto ancora si può leggere nei volti dei protagonisti de L’era della calamità; possono sembrare piccole cose, ma contano: c’è Impa che abbassa lo sguardo, quando Urbosa parla di come gli Yiga siano degli Sheikah traditori; lo stesso fa Sidon, quando con Mipha pensa a quel che è successo nella sua linea temporale; c’è Zelda, che con frustrazione e odio per se stessa lancia uno sguardo di sfuggita a Link, dopo la cerimonia; e c’è proprio Link, sempre alle spalle di Zelda, che mai come adesso la rassicura e le fa sentire tutto il suo sostegno, a modo suo. Insomma, certe cose non cambiano mai, ed è bello rivederle di nuovo qui; ma è decisamente più bello cogliere queste nuove finezze, che ancora una volta dimostrano l’attenzione e la dedizione messe nel costruire queste cutscene. Ma non solo: i protagonisti dialogano tra loro anche nello schermo di costruzione del team da mandare in battaglia, o si esprimono attraverso i prompt di dialogo durante il combattimento, dicendo cose più che sensate e non solo filler. Grazie Team Zelda, grazie KOEI: sinceramente, questo tipo di qualità era esattamente quel che volevo.
In tutto questo, però, c’è più di una cosa che stona: ce ne sono, secondo me, ben due. A voler essere pignola (e onesta con me stessa) le cose sarebbero tre: la prima (ben poco rilevante, e solo per gusto personale) è Revali. Sapevamo tutti quanto superiore si sentisse rispetto agli altri e quanto contasse sulle proprie capacità; ma qui, specialmente all’inizio, mi è sembrato che un po’ si esagerasse. Non so, forse sono ancora un po’ risentita per gli eventi legati al suo primo incontro, con le truppe Rito che attaccano il trio Link-Impa-Zelda: non che non fossero giustificati, ma Revali, contando anche sul fatto che Link è ancora ufficialmente un semplice soldato della Guardia Reale, risulta comunque troppo più snob di quanto mi sarei aspettata. Ok, l’ho detto.
Insomma, son gusti, e in molti hanno trovato questa scelta adeguata. Alla fin fine, quando sono arrivata a tirare le somme, il fattore Revali non mi ha infastidito più di tanto. Ma lasciamo perdere il Campione Rito, e dopo aver tessuto finora le lodi di questo titolo… addentriamoci nei punti deboli de L’era della calamità.
Una figura un po’ troppo ingombrante
La prima cosa che stona davvero è… beh, Terrako. Il piccolo guardiano, il vero motore dell’azione, si prende lo screen time che si merita ma anche quello che non si merita: se da una parte trovo più che corretto dedicargli spazio, dato che la sua stessa presenza sconvolge questa linea temporale e ne causa le divergenze con la “frequenza primaria” che è Breath of the Wild, dall’altra più di una cosa legata al piccoletto mi ha fatto storcere la bocca. Terrako, che prima chiamavo tra me e me R2DGuardian o BBGuardian, per la ridicola somiglianza (soprattutto sonora) con gli astrodroidi di Star Wars, fa un po’ troppe cose per i miei gusti: sia a livello di funzionalità, sia a livello di funzioni nella storia. Mi spiego meglio, andando per punti.
Quando parlo di funzionalità sto ragionando ad un livello estremamente pratico: riassumendo, Terrako può viaggiare nel tempo, può richiamare esseri senzienti da altre dimensioni, può esplodere come una mini testata nucleare (e su questo torneremo dopo), può suonare canzoncine, può attivare a piacimento quasi tutta la tecnologia Sheikah e può combattere. Se volessi buttarla in caciara oserei chiedere: ma il caffè lo fa? E invece sono una persona seria, non lo chiedo e lo maschero con una figura retorica di dubbio gusto. Non solo, passo direttamente a notare una cosa ancor più “grave”: Terrako è cosciente. Più o meno letteralmente.
Davvero non vogliamo affrontare questo discorso? Perché a me sembra più che scottante: quando mai abbiamo visto una macchina, nella saga di The Legend of Zelda e in Breath of the Wild nello specifico, comportarsi così? A parte un vago ricordo dei piccoli robot nel deserto di Skyward Sword che ringraziavano commossi il loro capitano, in tutta la saga non troviamo altro; e in Breath of the Wild per quanto ne sappiamo i Guardiani possono essere gestiti e indirizzati, ma funzionano solo in modalità seek and destroy; di certo non si mettono a bisticciare simpaticamente coi loro alleati, non si mettono a suonare canzoni di conforto ai loro umani di riferimento e non hanno sfoghi di gelosia se la loro padroncina ringrazia tutti gli altri per l’aiuto e non loro. Insomma, la questione merita più di una riflessione: Terrako si comporta così perché così è stato programmato (“salva la Principessa, ovunque tu sia e chiunque lei sia”) e quelle che vediamo sono solo imitazioni di un comportamento umano? Oppure è stata la stessa Zelda, da piccola, quando lui ancora funzionava, a dargli una sorta di imprinting o comunque a influenzare la sua curva d’apprendimento? Oppure è “solo” un guardiano con una vera e propria coscienza? E’ stato lui a dimostrare quanto avanti fossero le tecnologie Sheikah e a convincere il re di Hyrule a bandirle, diecimila anni fa? O forse sto solo, evidentemente, esagerando? Domande che rimarranno, probabilmente, per sempre senza risposta.
Quando invece parlo di funzioni intendo ragionare sul ruolo che Terrako ha nella storia – almeno, in questa storia. Sulla prima parte non intendo discutere: l’impatto del viaggio nel tempo del piccoletto ha una rilevanza decisiva, così come la sua capacità di attivare la Tavoletta e le Torri Sheikah ma, soprattutto, di richiamare gli eredi dei Campioni quando la Calamità si risveglia e tutto sembra perduto. Voglio soffermarmi solo sulla sua fine, che è la parte che mi ha lasciato… più che perplessa, diciamo. Penso, in particolare, alle due scene “finali” del gioco e della vita del piccolo Guardiano: lo scontro contro di lui e il conseguente “funerale”, e il combattimento vero e proprio contro la Calamità. Per quanto lo scontro contro il “nostro” piccolo Terrako infettato dalla Calamità sia piuttosto dimenticabile (relegato ad uno spiazzo un po’ piccolo e spoglio, con poca libertà di movimento, decisamente facile, anche abbastanza breve), la scena di Zelda che piange sul suo corpo rotto è senz’altro potente e ben fatta – per non parlare di quel sentimento di vera violenza che evoca: Zelda è da sempre un prodotto PEGI, ben lontano dagli standard di violenza di un DOOM qualsiasi, e non si sono mai visti sangue o ferite realistiche; quel che si è perso finora si recupera qui con la visione straziata del corpo macchina di Terrako, che è sinceramente evocativo di ogni singolo colpo infertogli da Link. Non lo nego, mi si è stretto il cuore – e mi sono pure sentita in colpa. Solo per poco, però: perché la scena è indubbiamente bella, ma… siamo sicuri che sia così azzeccata? Davvero Zelda ha bisogno di veder “morire” Terrako per avere la determinazione necessaria a salvare Hyrule? Non è bastata la (non) morte di suo padre, la devastazione della regione e tutti i morti del Borgo del Castello, per farla procedere a passo così spedito verso il Torrione principale? O, di nuovo, sto solo facendo la pignola senza motivo? Stavolta sono piuttosto sicura sull’ultima domanda: per quanto non mi abbia completamente convinto, la scena è troppo bella per non contemplarla. Diciamo solo che la morte di Terrako è la famigerata ultima goccia su cui, al massimo, si è insistito troppo.
Dicevo: convinta al 99%. E va bene, il ruolo di Terrako qui si esaurisce: riposa in pace, piccolino, hai fatto fin troppo, grazie di tutto, davvero. E invece no: di fronte ad un Ganon apparentemente inscalfibile, raggiunto in modo fisicamente discutibile dalle lacrime di Zelda, Terrako, che sembrava andato per sempre, decisamente più rotto che intero, raduna le ultimissime forze per caricare la Calamità, esplodere, indebolirla, permettere ai nostri di sconfiggerla. Un secondo… cosa?
Per prima cosa, perché? Perché prolungare lo strazio di questa povera “creatura”, che evidentemente ha già dato fin troppo? Narrativamente parlando, questa scena stona su più livelli: la sua morte è stata forse poco epica, ma che bel finale, che bella scena quella del pianto di Zelda; era già un’ottima fine per Terrako. Se invece si voleva per forza farlo sacrificare contro Ganon, scelta assolutamente comprensibile, si poteva saltare la parte precedente. Tenerle entrambe mi sembra voler strafare. Ma soprattutto: davvero volete dirmi che contro la Calamità Ganon (per quanto potenziata da Astor e dal Terrako “cattivo”) non bastano potere del Sigillo e Spada Suprema? Serve per forza la mini-esplosione atomica di Terrako? Mmmh, no, non mi convince.
Sì, ok, ma lui chi è?
Ma torniamo al punto iniziale, e affrontiamo anche la seconda cosa che stona: Astor. L’esimio signor Astor, personaggio totalmente nuovo, sembra il classico supercattivo che fa il supercattivo per il solo gusto di esserlo: presentato semplicemente come “seguace della calamità”, desidera il ritorno di Ganon e si impegna perché sia così; ha a disposizione una strana reliquia di cui non si sa nulla, la capacità di creare cloni oscuri e il potere di vedere il futuro (che poi: quale futuro? Quello di questa linea temporale? Quello della linea di Breath of the Wild? Un tasto dolente anche questo, ma che in fondo non è davvero rilevante); con sé ha anche il Terrako “cattivo”, che in questa epoca è stato corrotto (fin da subito) da Ganon (anche qui, com’è che l’ha ottenuto esattamente? È stato il Terrako cattivo che è andato a cercarlo? Si è intrufolato nel Castello per prenderlo? Non è dato sapere). E poi?
Non molto: con incantesimi assolutamente mai visti prima in questa Hyrule (ma comunque riconducibili all’estetica della tecnologia Sheikah) fa strage dei suoi stessi alleati per potenziare la Calamità, con una semplicità tale da svergognare Nicol Bolas e il suo rituale di raccolta delle scintille su Ravnica; un gesto così da supercattivo da far tornare sui suoi malvagi passi pure il Maestro Koga, che, per quanto sia simpatico in questa dimensione, fino all’altro ieri desiderava il ritorno della calamità e la distruzione di buona fetta delle creature viventi. Sì, la cosa mi ha lasciato piuttosto perplessa, ma mai quanto la vacuità dell’esistenza stessa di Astor. Insomma: con qualche piccolo espediente di trama L’era della calamità poteva svolgersi benissimo anche senza di lui: sarebbe stato difficile, in quel caso, sentirne la mancanza. Riflettendoci, su Astor non sappiamo niente di niente: chi è? Da dove viene? Il clan Yiga ha i suoi motivi per parteggiare per Ganon; ma Astor? Qual è la sua motivazione? Ci sarebbe stato anche in Breath of the Wild, oppure è stata colpa di Terrako se è diventato così? È lui il famigerato veggente che predisse la calamità? Domande destinate a rimanere senza risposta, e che portano Astor in cima alla mia classifica di personaggi inutili e dimenticabili.
Le cose che secondo me stonano in modo evidente erano queste due, ma questo non significa che i miei problemi con il titolo siano finiti. Anzi. Affrontiamo quindi l’ultimo, ingombrante problema de L’era della calamità, sbattendo le carte in tavola e ponendo un po’ di domande scomode: di preciso, questa storia, cos’è? E quand’è? E dov’è? Finiamo questa recensione cercando di capirci qualcosa.
Quel che sarebbe dovuto essere… o no?
Quando è uscito il primo trailer, abbiamo tutti pensato che si trattasse di un prequel. E, francamente, a me andava bene così (pathos recepito, livelli d’informazione… ne ho già parlato, nel dettaglio, qui). Ma quando col passare dei giorni è uscita la demo, è stato da subito chiarissimo che la situazione de L’era della calamità sarebbe stata decisamente diversa. Riassumendo, Terrako torna indietro nel tempo, attiva la tecnologia Sheikah anti-calamità (le Torri, alcuni Guardiani, forse anche i sacrari?); grazie a lui i Colossi non cadono in mano nemica quando Ganon si risveglia; grazie a lui la calamità può essere finalmente sigillata. Sì, accadono anche altre cose: con lui arriva anche parte del rancore della calamità già risvegliata, entra in gioco Astor col suo Terrako “cattivo”… ma soffermiamoci sulle cose buone.
È questa la storia, intesa come successione di eventi, che si sarebbe dovuta svolgere già in Breath of the Wild? Beh, più o meno sì: l’eroe estrae la Spada, la principessa (meglio tardi che mai, ma soprattutto meglio tardi che su un eroe quasi cadavere) risveglia il potere del Sigillo, la tecnologia Sheikah dà una mano come può – i Campioni fanno letteralmente crowd control con i Colossi sui mostri, mentre le Torri garantiscono un comodo punto di teletrasporto per un intero esercito. Meglio di così davvero non si può. In questa versione della storia il massimo che fa Ganon è avere un tirapiedi francamente dimenticabile e avere dalla sua i Guardiani; per il resto, è pure riuscito a perdere l’appoggio del Clan Yiga.
Ciò che più mi aveva colpito in Breath of the Wild era la non linearità della sua storia: tutti erano pronti all’arrivo della calamità, ma, canonicamente, non lo erano davvero. La Tavoletta non funzionava, e non ha garantito all’eroe l’accesso ai sacrari, allenamento fondamentale per lo scontro finale; i Campioni non sapevano controllare a dovere la tecnologia dei loro Colossi, e non hanno saputo contrastare l’attacco di Ganon; il potere di Zelda, inoltre, non si è risvegliato fino all’ultimo. Per cui, all’apice del dramma, la storia subisce un vero e proprio stop: Zelda si rinchiude nel Castello per cento anni, mentre trattiene la calamità; Link dorme e si rigenera e al suo risveglio, solo, inizia il vero e proprio processo che lo porterà infine al successo: si cimenta negli allenamenti dei sacrari, diventa più forte, riottiene la Spada, libera i Colossi e sconfigge Ganon. Lo svolgersi di questa storia è durato in tutto più di cento anni, e dopo un primo sviluppo si è dovuti letteralmente tornare all’inizio e rifare tutto da capo. Ma di chi è stata colpa? Beh, di un sacco di gente: dal vecchio re di Hyrule che fece bandire la tecnologia Sheikah, e adesso non si sa più come utilizzarla e attivarla, alla regina che è morta prima di poter insegnare a sua figlia come risvegliare il suo potere, causandole una crescita disastrosa dal punto di vista affettivo. Insomma, il fallimento di Breath of the Wild è chiaramente colpa della situazione in cui si ritrovano i protagonisti prima dell’arrivo della calamità. Situazione che il viaggio di Terrako, inesorabilmente, cambia.
Con Terrako, infatti, la tecnologia Sheikah è disponibile, gli eroi sono pronti all’arrivo della Calamità, non c’è bisogno che Link (quasi) muoia per risvegliare il potere di una Zelda qui più ottimista e più fiduciosa. Tutto quadra. Ma io sono una persona pignola, avvocato del diavolo, e presento una questione: la Spada Suprema in questa storia non è già in possesso di Link; perché? In Creating a Champion si dice chiaramente che Link, giovanissimo, ha compiuto la straordinaria impresa di trovare ed estrarre la Spada dal bosco; sembra quindi una differenza tra L’era della calamità e Breath of the Wild non riconducibile al viaggio di Terrako. A meno che Link non avesse avuto intenzione di andare proprio al bosco, dopo la battaglia della Piana, il giorno esatto dell’arrivo del piccolo guardiano, e l’apparizione gli abbia sconvolto i piani. Ma vi rendete conto anche voi che si tratterebbe davvero di un salvataggio un po’ troppo in corner.
E quindi? Altre domande rimaste senza risposta. Per cui lasciamo perdere la questione della Spada, che può sembrare una piccolezza: in questa versione della storia, insomma, le cose vanno piuttosto a gonfie vele. A conti fatti, non muore nemmeno nessuno: ripenso con un sorriso ai meme del trailer di lancio, con la scritta Hyrule Warriors: EVERYONE FUCKIN’ DIES. La linearità persa con Breath of the Wild qui ha nuova vita, presentandoci le cose… come dovevano essere. Forse. Perché comunque non penso che l’arrivo di prescelti dal “futuro” fosse contemplato, sia nella successione degli eventi immaginata dagli antichi asceti Sheikah che nella produzione di Eiji Aonuma & Co..
Un futuro che non esiste
Ed eccoci al punto: ho scritto “futuro” prima, virgolettato, perché non è davvero di futuro che stiamo parlando.
Quando nelle storie di finzione si affronta uno o più viaggi indietro nel tempo ci sono due modi di prenderla, o gestirla: o il corso degli eventi è già “scritto”, per cui un eventuale visitatore dal futuro non potrebbe migliorare la situazione (anzi, con degna ironia tragica potrebbe essere lui stesso la causa dei problemi che nel suo presente l’hanno costretto a tornare indietro), o l’evento del viaggio determina la nascita di un’altra dimensione, in cui, a quel punto, tutto è possibile senza restrizioni di sorta. Ovviamente ci sono anche vie di mezzo (penso alle prime stagioni di Doctor Who, in cui i punti “fissi” erano solo alcuni eventi di precisa rilevanza); ma le scuole di pensiero sulla gestione dei viaggi nel tempo sono principalmente queste due, nell’entertainment di massa. Motivo per cui, dalla fine della prima cutscene della demo/primo capitolo di Hyrule Warriors: L’era della calamità, in cui scopriamo del viaggio nel tempo, ho iniziato ossessivamente a chiedermi: ok, qual è delle due?
L’utilizzo dell’avverbio ossessivamente potrà sembrarvi eccessivo, ma vi garantisco che è consono; ad ogni nuovo cambiamento significativo del corso degli eventi de L’era della calamità mi chiedevo: Terrako sta letteralmente distruggendo il passato (visto nei ricordi di Breath of the Wild) e il futuro (giocato, praticamente) che conosciamo? Oppure è tutto un gigantesco what if di una dimensione parallela? Sapere la risposta è importante: ti permette di inquadrare nella cornice giusta il prodotto di cui stai fruendo. Non è una questione di scarsa importanza. Anche quando, con l’arrivo degli eredi e il salvataggio dei Campioni, è infine diventato ovvio che le cose sarebbero andate troppo diversamente da come le conoscevamo non ho potuto escludere a priori la possibilità della storia già scritta: e se si trattasse di un loop temporale? E se gli eredi arrivassero davvero dal futuro, e non da una dimensione parallela, ma Terrako a un certo punto si rompesse e tutta la storia fino ad adesso venisse cancellata da un suo malfunzionamento? Se, insomma, tutto questo fosse comunque accaduto davvero all’interno della linea temporale di Breath of the Wild ma Link non ne avesse ricordo per qualche bislacco motivo?
La cosa che continuava a mettermi in allarme è che in ogni cutscene de L’era della calamità si parla degli eredi come di “grandi combattenti venuti dal futuro“. Pure nelle descrizioni, e nelle schermate di caricamento. Il dubbio ha continuato a divorarmi anche mentre gli eredi svanivano, dissolvendosi nell’aria, accompagnati dalle parole di Zelda e Urbosa: “che la luce continui a splendere nel futuro in cui vivete”, “vi affidiamo il futuro”. Ma in che senso? Questo non è più il loro passato! Potrebbero addirittura non esistere – e se esistessero, non sarebbero poi così! La storia del gioco era finita, ed io, francamente, non avevo capito cos’era che avevo per le mani. Perché a questo punto era chiaro che di dimensione parallela si trattava, ma perché, perché ostinarsi ad usare un lessico che evidentemente non è consono, quando basterebbe usare una sola magica parolina in più per essere chiari e corretti?
Alla fine, con una nonchalance quasi vagamente offensiva, la verità mi è stata concessa all’interno di una banale schermata di caricamento del postgame. Meglio tardi che mai, ma perché attendere così tanto? Vi sembrerà che stia tirando su un polverone per una cosa da nulla: ma se da una parte è pienamente comprensibile che, almeno all’inizio, i personaggi nelle cutscene usino la parola “futuro” come giusta e corretta, dall’altra almeno dal gioco mi aspetto un determinato livello di coerenza; di sicuro non mi aspetto che usi questo stesso termine nelle scene finali, quando anche ai personaggi stessi sarà chiaro che le cose sono cambiate, o nelle descrizioni della galleria, ma soprattutto non mi aspetto che mi getti lì, senza una spiegazione, delle “Pietre ultradimensionali” con una descrizione che lascia davvero a desiderare in quanto a chiarezza – parole che, anzi, possono essere valide solo per un osservatore “esterno”, magari proveniente dalla linea di Breath of the Wild, non “interno” a L’era della calamità. Insomma, a volte questo gioco sembra saperne fin troppo, a volte fin troppo poco. E la coerenza latita.
In ogni caso, la dichiarazione di verità appare solo dopo il finale. E probabilmente era proprio questo l’intento degli sviluppatori: lasciare che le cose divenissero chiare a storia finita. In tal caso, mi permetto di dire che, ad averlo saputo prima (non troppo prima: diciamo una volta salvati i Campioni), non mi sarei crucciata per tutto questo tempo e mi sarei potuta godere meglio il tutto. Mi avrebbe fatto molto piacere. Ma forse, di nuovo, penserete che tutto sommato stia esagerando io.
In conclusione
Messo in tavola quel che c’era da dire, va fatta una riflessione importante: un titolo del genere era necessario? Una domanda scomoda e difficile, visto quel che questo gioco mi ha saputo offrire, ma che va posta. Beh, la risposta che mi sono data, dopo 70 ore passate a combattere in questa Hyrule, è relativamente semplice: no, non ce n’era bisogno; ma questo non significa che il titolo non valga nulla, anzi: a livello di trama è la cosa “inutile” più bella a cui abbia mai giocato, un what if che è reale, ma solo in un mondo parallelo a quello di Breath of the Wild, e rimane a noi la scelta del volerlo considerare o meno. Ti è piaciuto L’era della calamità? Ottimo! È in un mondo parallelo, ma non per questo è meno canon! Non ti è piaciuto? Nessun problema! È in un mondo parallelo, puoi anche ignorarlo! Qualcuno potrebbe definire KOEI e Nintendo con quella magica parola che inizia per “para” e finisce citando una parte del corpo posteriore, ma io mi limiterò a dire che hanno semplicemente trovato un modo per raccontarci una storia diversa, riuscendo a cadere in piedi.
In tutto questo, mi chiedo adesso se usare la parola “inutile” non sia troppo rischioso: di Breath of the Wild 2 (titolo temporaneo che la fanbase ha affibbiato al progetto) non sappiamo praticamente nulla; se saltasse fuori che ha in qualche modo a che fare con L’era della calamità, a questo punto questo (non)prequel non sarebbe assolutamente “inutile”. Se fosse un sequel di questa storia, e non di quella di Breath of the Wild? E se gli eredi, tornati nella loro dimensione, ricordassero gli eventi de L’era della calamità e ne parlassero a Link e a Zelda?
Ipotesi sul futuro (questo sì, senza virgolette) piuttosto fantasiose, a loro modo anche piuttosto rischiose. Io sono fiduciosa che la nuova avventura ad Hyrule si baserà su quella del 2017, e non su questa. Perché? Perché, come abbiamo già discusso nel nostro gruppo a tema Zelda, Nintendo ha ancora le idee chiare su dove spingersi, all’interno dei suoi giochi principali e dei suoi spin-off, perché di questo si tratta: L’era della calamità è preceduto da Hyrule Warriors, non da The Legend of Zelda, ed anche per questo si son presi la libertà di fare sostanzialmente quel che pareva loro a livello di trama, con viaggi nel tempo e dimensioni parallele – non che abbiano problemi a farlo anche nei loro prodotti più canonici, anzi, ma figuriamoci quanto possano “sfogarsi” in un prodotto così borderline.
Ma facciamo quel che dobbiamo fare, nelle conclusioni: questo gioco mi è piaciuto? Sì, davvero tanto. Tanto quanto Breath of the Wild? No, non così tanto, ma è un paragone che non ha senso fare, sotto tanti, troppi, punti di vista – la differente struttura di gioco impone tempi e modi per cui nessuna persona sana di mente oserebbe paragonare l’esperienza regalata da un musou a quella data un open world come Breath of the Wild. Quindi? Quindi L’era della calamità è un gioco splendido, con le sue macchie, anche evidenti, ma comunque bellissimo; la sua storia mi ha dato tanto, anche in termini emotivi, e la natura stessa della vicenda permette di essere considerata canonica “a piacere”, diciamo. Non lasciatevi ingannare dalla mia puntigliosità: ho amato questo gioco, anche se sto dalla parte di quelli che lo considerano “solo” una splendida bolla di sapone. Come buona fetta della redazione, di solito trovo troppo riduttivo dare voti numerici; ma dopo tutta questa ignobile sequela di parole, se mi avete letto fin qui, posso anche arrischiarmi a farlo: L’era della calamità, per me, è un 8/10. E davvero merita di stare sotto l’albero di Natale di ogni fan della saga.
Che ne pensate? Sono stata un po’ troppo pignola e puntigliosa? Fatemelo sapere nei commenti!
Classe 1994, universitaria disperata, Pokéfan dal lontano 2003 e da Rubino. Appassionata di storie (che siano libri, serie tv, mitologia o giochi di ruolo), le piace scrivere di ciò che la appassiona, e la sintesi non è certo il suo dono.