Detective Pikachu: Il ritorno è un gioco umano

Abbiamo già parlato, e in dettaglio, di Detective Pikachu: Il ritorno, il gioco spin-off sequel del titolo Detective Pikachu uscito in Giappone nel lontano 2016 per Nintendo 3DS da cui ha tratto ispirazione il famoso e famigerato film del 2019. Gli abbiamo dedicato delle guide (le trovate in fondo all’articolo) e una recensione, che affronta lato tecnico e contenutistico, assolutamente spoiler free.

Oggi, però, ad un mese di distanza dall’uscita, chiudiamo con Detective Pikachu: Il ritorno affrontandone le parti più interessanti: la trama, i suoi personaggi, la narrazione e i suoi momenti. Perché, come già accennato nella recensione, questo è un gioco con un’anima che osa rimettere piede in tematiche che non si vedevano dai tempi di Bianco e Nero e relativi sequel; e questo gioco, seppur sia uno spin-off anche piuttosto piccolo in termini di dimensioni, ha davvero tanto da dire, specialmente nell’ottica in cui i titoli principali, purtroppo, non offrono un pari livello di contenuti da tempo.

Se non avete giocato il titolo ma siete comunque curiosi, inutile dire che tutto quel che segue è pieno di spoiler ad ogni riga.

Una delicatezza inaspettata

Partiamo da quello che, personalmente, mi ha più sorpreso: i personaggi e il loro modo di interagire, tra loro e con i problemi che via via devono affrontare. Il momento più interlocutorio, da questo punto di vista, avviene al momento di chiudere il Capitolo 4, Ricordi del bosco di bambù.

Pikachu inizia a rivivere i suoi ricordi – quelli di Pikachu, ovviamente, ma anche quelli di Harry – finendo per sovrapporli: nel raccontare le sue vicende a Tim alterna i punti di vista dell’uomo e del Pokémon, senza accorgersi che la sua narrazione, logicamente parlando, non ha senso. Tim, invece, se ne accorge subito: all’inizio fa notare l’incongruenza, ma chiude un occhio; già dalla seconda occasione in cui il suo partner fa confusione, però, inizia a preoccuparsi sul serio e va nel panico: già dal giorno prima, infatti, a Pikachu capita di perdere i sensi. In modo naturale e progressivo, con lo svolgersi degli eventi del caso, entrambi maturano una loro posizione: da una parte c’è Pikachu, che, da deciso che era ad ignorare i suoi problemi, inizia a rendersi conto che qualcosa non va, mentre, confuso, prova a fare il punto della situazione nella sua testa; e c’è Tim, dall’altra, che è genuinamente preoccupato per il suo partner e che dapprima si fa prendere dall’ansia, per poi decidersi ad arrivare al fondo della questione, ma stavolta con cautela, con tatto, con delicatezza.

E’ questa la parola chiave: delicatezza. Al termine del caso, Tim invita Pikachu a parlare in un posto appartato, un capanno lì accanto. Questa è un’accortezza assolutamente non necessaria: Rachel e Jessica se ne stanno andando e nessuno può capire Pikachu, per cui Tim potrebbe semplicemente parlargli a voce bassa poco distante dalle due donne, sulla via del ritorno verso il centro di Ryme City. Eppure, è indice di quel tipo di premura che Tim manifesta per Pikachu: il capanno è un luogo piccolo, caldo, intimo, perfetto per il viaggio che Tim vuole fare.

I due si mettono a parlare e ricostruiscono, da capo, tutta la vicenda, passo passo, cercando di dare un senso alle incongruenze e unendo l’utile al dilettevole: da un lato, questo espediente è assolutamente utile per il giocatore, visto che permette di riassemblare la storia senza il timore di aver dimenticato qualcosa; inoltre, la ricostruzione della vicenda per mezzo delle domande di Tim rende la chiusa del capitolo simmetrica ai tre casi precedenti, dando un’ulteriore mano al giocatore che riconosce il pattern della ricostruzione attraverso degli step a lui familiari. Dall’altro lato, inoltre, rinforza ancor di più l’immagine di un Tim delicato, premuroso, umano, che accompagna, guida, e aiuta il suo partner e non lo forza, mettendolo di fronte alle sue contraddizioni con dolcezza. Insomma: è proprio così che vorrei che mi parlasse, per una questione così delicata, il mio migliore amico.

Quel che succede è qualcosa che per la saga di Pokémon è piuttosto raro: è il frutto di un’evoluzione e il risultato di un rapporto, di un intenso legame che è nato in mezzo alle difficoltà e che si è sviluppato ancora nel tempo. I due, nell’intimità del capanno del bosco in cui Harry e Pikachu si sono incontrati, arrivano alla soluzione: Pikachu ricorda, e si riscopre Harry; Tim ritrova suo padre. E ne nasce un’ambiguità, un imbarazzo tenero tra il Pokémon/uomo e il ragazzo, che non sa più nemmeno come chiamarlo, con l’ottima scelta di regia di lasciare le ultime battute nel buio, affidandole alle sole voci. Che fanno davvero un ottimo lavoro.

Unitas ed humanitas: una scala di grigi

Abbiamo visto una scena di tenerezza e delicatezza, quindi, ma Detective Pikachu: Il ritorno riesce ad offrire un quadro più complesso dello spettro delle emozioni umane. Ne avevamo già accennato nel pezzo spoiler free, ma il racconto di come si manifesti la malvagità in questo gioco merita una discussione a parte.

Come abbiamo già visto, raramente i Pokémon dicono bugie, e viene presentato come fatto che i Pokémon non possano essere malvagi per natura; un limite stretto per tirarne fuori una narrazione in cui, per necessità, qualcosa di “brutto” deve pur succedere. Detective Pikachu: Il ritorno se la cava con un “semplice” diagramma di flusso. I fatti che vedono Pokémon compiere azioni malvagie hanno infatti due spiegazioni: o il Pokémon sta facendo qualcosa di previsto per sua natura (è affamato e quindi, costretto per necessità, ruba del cibo per sopravvivere) ed è solo il contesto a rendere “malvagia” la sua azione; o il Pokémon sta agendo sotto l’influsso del Cubo (e quindi costretto per espediente narrativo) per cui non ha responsabilità propria, anzi.

La malvagità la lasciamo, quindi, alle persone. I loro moventi sono spesso semplici, eppure realistici, declinati in varie sfumature: c’è Larry Turner, il “cattivo” del primo caso, che agisce per soldi e che però è “buono”, tanto che nel suo piano non ferisce o danneggia alcun Pokémon e il suo Cramorant lo adora; ci sono gli scienziati e gli agenti operativi di Unitas, che agiscono come veri e propri cattivi, ma che hanno Pokémon (come Electrode e Kling) che li apprezzano e li stimano come partner e persone; c’è Butler, il capo dell’EPP, anche lui corrotto con il denaro ma che non si fa scrupoli a sfruttare Pokémon innocenti facendo soffrire loro e i loro partner umani, e finendo per gettare Ryme City nell’incertezza e nell’angoscia. Stesso movente, stili decisamente diversi.

C’è Brad, il sottoufficiale della polizia di Ryme City, che ci viene presentato come un antagonista, ma che ha seriamente a cuore la città e i suoi abitanti, umani e Pokémon, e che smette di essere la semplice macchietta del poliziotto snob concentrato solo sulla carriera a scapito di tutto e collabora con i protagonisti per ristabilire l’ordine e la giustizia. C’è il sindaco Myers, che è un “buono” reso “cattivo” dalle circostanze: il dolore per la morte della moglie, il desiderio di proteggere la figlia e la sua città, la paura, viscerale, associata all’incapacità di mantenere il controllo su persone e soprattutto su Pokémon lo hanno reso vittima d’elezione di Merloch e dei suoi piani. Serviranno la disperazione della figlia e il ricordo della moglie per aprirgli gli occhi, nel finale.

Merloch, dunque, che forse più di tutti appare un personaggio “semplice” attraverso i suoi vari strati: un geniale scienziato, manipolatore, senza scrupoli né per umani né per Pokémon, alla ricerca di conoscenza e potere. Nel finale, diffuso come pochi, il giocatore affronta, tra un rompicapo e l’altro, una sorta di spiegone posato: attraverso la discesa nei vari piani, trovando qua e là appunti e registrazioni, prendono forma le varie ipotesi sui piani del sindaco e di Merloch, e con i giusti tempi narrativi (il finale occupa l’intero Capitolo 5) si rivela tutto il piano dello scienziato. Ciò che più lo rende complesso infatti, in questo quadro di personaggi non banali, è il suo stesso piano, che consiste in più operazioni diverse tra loro da portare avanti in contemporanea: impossessarsi della gemma di Deoxys; rintracciare Jessica e sottrarle i dati di studio del progetto Unitas; corrompere Butler, capo dell’EPP, per far apparire i Pokémon pericolosi; manipolare il sindaco per diffondere i Cubi; trovare attraverso questi il modo per fondere umani e Pokémon. Quando, durante lo svolgimento del piano, si imbatte per caso in Mewtwo, il corpo di Harry, Tim e Pikachu, si rende conto che è esattamente quel che sta cercando e cambia il suo piano in base a queste nuove informazioni, creando una macchina per sfruttare il collegamento tra Harry e Pikachu, creato con l’energia psichica di Mewtwo.

Sul piano di Merloch e sui suoi problemi, in termini di trama, torniamo più tardi; intanto accontentiamoci di un’ultima constatazione: se per per i Pokémon vale il bianco e il nero, ben distinti tra comportamento naturale e costrizioni da Cubo, gli umani mai più di così si distribuiscono in una diffusa scala di grigi.

Una formula che funziona

Oltre ai suoi personaggi, che come abbiamo visto sono elementi vivi e funzionanti all’interno della storia, c’è qualcos’altro che convince nel gioco: l’utilizzo di determinati topoi e leitmotiv narrativi che, anche se un po’ banali, sono di sicura efficacia.

L’arrivo del team, in slow-motion, come Baywatch comanda.

Basta prendere in esame solo l’ultimo capitolo: c’è l’arrivo della squadra al completo con un rallenty degno di Baywatch; c’è il sacrificio dei compagni, uno dopo l’altro, durante la corsa finale verso il cuore del laboratorio di Unitas, con l’immancabile scambio di battute “Forza, ti aspetto!” “No, tu vai, io rimango qui!” e conseguente dolore e senso di perdita; ci sono due Pokémon leggendari, fortissimi e amatissimi come Mewtwo e Deoxys che si affrontano (con scene di lotta mica male); c’è il colpo di genio finale, con la posa classica e il caffè gentilmente offerto dalla macchina del cattivone; c’è il sacrificio di Pikachu/Harry, con Tim che con la morte nel cuore sceglie di mettersi in salvo, e il padre che lo guarda dicendo “sono davvero fiero dell’uomo che sei diventato”. C’è, infine, il Mewtwo ex machina che risolve tutto.

Classici format da film d’azione, scontati, banali, “chiamati”, ma che se sono diventati così famosi e se ne è fatto un così largo uso un motivo c’è: semplicemente, funzionano. E in Detective Pikachu: Il ritorno, che vuole essere un prodotto d’avventura, con questo Pikachu con la voce da detective a metà tra il noir e l’hard-boiled, una roba del genere calza a pennello. Questo titolo, che come abbiamo già detto vuole stare con i piedi in tutte le staffe possibili e piacere sia a grandi che a piccini, usa quindi i mezzi e gli stratagemmi più semplici, e al contempo più universalmente condivisibili; e, in fin dei conti, il risultato è qualcosa di delizioso: per ogni “plot twist” da film d’azione americano, il titolo compensa con quegli elementi che invece non ci saremmo mai aspettati all’interno della saga, come Pikachu arrestato e rinchiuso in prigione che si confronta con il boss del cortile, o la delicatezza della scena al capanno che abbiamo ricordato prima, o ancora, i compagni umani dei Pokémon arrestati che esternano preoccupazioni e angosce sulla sorte dei loro mostriciattoli in modo così insistente da sembrare, francamente, reali. Alla fine la riproposizione dei tropes americani non stucca, il prodotto mantiene una sua originalità, e quando arrivi alla fine hai la sicurezza di esserti goduto qualcosa di nuovo attraverso strutture narrative molto familiari.

La libertà nella bolla

Un azzardo, questo, quasi mai colto nelle produzioni maggiori, cioè nella saga principale. La narrazione nei giochi canonici segue sempre lo stesso, linearissimo, attendibilissimo canovaccio: c’è il viaggio da intraprendere per completare il Pokédex, ci sono Palestre o sfide sostitutive da affrontare, un team nemico che ti mette i bastoni tra le ruote, dei Pokémon leggendari unici ed evasivi. Le eccezioni al canone si contano sulle dita di una mano, fatto che, in una saga di più di venticinque anni, è già tutto un dire.

*looks at TPCi*

D’altronde, perché arrischiarsi a cambiare una ricetta, se quella “funziona”? Da una vita ormai i fan di Pokémon crescono, invecchiano, si guardano intorno nel mondo videoludico e sperimentando le altre perle che questo mondo offre chiedono a gran voce dei cambiamenti. Ma quegli stessi fan continuano, quando per affetto, quando per abitudine, a comprare; e per ogni fan che si allontana, qualcun altro si avvicina al mondo dei mostriciattoli, con la serie anime, con le carte, con il merchandise. I risultati sono inattaccabili: Pokémon vende, come sempre, anzi, anche di più; e la ricetta non si cambia. Rimangono le produzioni minori: gli spin-off. Che possono essere sviluppati da qualcun altro (Detective Pikachu: Il ritorno, ad esempio, è di Creatures Inc. e non di GAME FREAK) per non togliere “risorse” alla casa principale, e sul cui profitto non si basa di certo la sopravvivenza di Pokémon in quanto brand. Il risultato è, per chi vuole cambiamento, uno spiraglio di speranza: stesso materiale di partenza, ma la possibilità di accollarsi un rischio, un azzardo calcolato. E all’interno della “bolla spin-off” si può respirare una libertà inaspettata: quella di poter esplorare un nuovo gameplay, un nuovo presupposto nella storia, un nuovo stile di narrazione, o tutti e tre gli aspetti contemporaneamente. E offrire ai fan, finalmente, qualcosa di nuovo e fresco.

Gli spin-off di Pokémon sono davvero tanti: si va dalla serie di Snap ai puzzle game, dalla serie Rumble a dei veri propri arcade, arrivando fino a giochi molto più impostati e story-based, come Pokémon Stadium, Pokémon Ranger, Pokémon Mystery Dungeon e, per l’appunto, Detective Pikachu. Mi soffermo sugli ultimi due: di Mystery Dungeon, il cui primissimo titolo ho giocato da bambina, difficilmente dimenticherò mai le lacrime versate ai tempi; di Detective Pikachu, invece, avendo visto il film e giocato il titolo da adulta, porterò con me la sensazione di una trama originale dai personaggi accattivanti, in un vero mondo coabitato da umani e Pokémon, con la familiare struttura dei tropes dei film d’azioni made in USA a cui la mia generazione è così tanto abituata.

Una struttura così inedita per la saga principale Pokémon, così “distante” da essa per natura pur condividendone il mondo e le basi, da essere letteralmente il materiale perfetto per trarne un film: da una parte abbiamo un prodotto Pokémon, un brand amatissimo in tutto il mondo, che è un chiaro strumento d’attrattiva per gli spettatori; dall’altra parte, si basa su uno spin-off, per cui la gente non può indisporsi troppo se ci si allontana dal materiale “originale” dell’immaginario collettivo (Poké Ball, allenatori, Palestre…) e il fatto che lo stesso contenuto di partenza sia più profondamente story-based dà un chiaro aiuto a gettare le basi per un film. Insomma, un terreno d’esplorazione con ampi margini di movimento che Warner Bros. ha saputo sfruttare al meglio.

Ma quindi, è venuto prima l’uovo o il Togekiss?

In tutto questo, è arrivato finalmente il momento di affrontare l’elefante nella stanza: il film. E il fatto che, per chi lo ha visto, metà di Detective Pikachu: Il ritorno sia sostanzialmente un modo di riadattare quel finale con il resto di una nuova narrazione originale.

Rifacciamo il punto sulla situazione. Due anni fa, Ryme City viene sconvolta dalla vicenda dell’Agente R, un composto chimico in grado di sconvolgere i Pokémon e renderli aggressivi; Tim Goodman, un giovane e brillante ragazzo giunto in città con l’obbiettivo di indagare sulla scomparsa del padre Harry, si ritrova a far coppia con un Pikachu speciale (l’ex compagno Pokémon di Harry, amante del caffè, che Tim riesce a comprendere come se parlasse la lingua umana). La particolare coppia di detective riesce a risolvere il problema, riportando la calma a Ryme City. Queste sono le vicende che accadono in Detective Pikachu per Nintendo 3DS, e sono quindi l’antefatto per Detective Pikachu: Il ritorno.

Il film ricalca le vicende del Detective Pikachu originale per Nintendo 3DS, ma aggiunge tanto alla narrazione (ne avevamo già parlato in precedenza qui): la storia della sparizione di Harry è centrale, e si risolve nel finale, con la fine dell’amnesia di Pikachu/Harry che, a vicenda conclusa, grazie a Mewtwo, riesce a riottenere il suo corpo e a riunirsi a suo figlio. Tutto questo, in Detective Pikachu: Il ritorno, non è (ancora) successo; sono passati ben due anni dalla fine degli eventi del primo gioco, e quando all’inizio Mewtwo interagisce con Tim, dice che sta ancora lavorando al caso di suo padre; Pikachu, inoltre, è ancora afflitto da amnesia. Quando riottiene la memoria, dopo il confronto nel capanno del Capitolo 4, la spiegazione per far tornare tutto è un po’ macchinosa: in un flashback scopriamo che la sorte di Harry è esattamente quella mostrata dal film, e che alla fine delle vicende del primo gioco Pikachu ha ricordato di essere Harry; ha chiesto a Mewtwo più tempo, ma il Pokémon gli ha cancellato la memoria, per impedire che la fusione tra umano e Pokémon fosse irreversibile. Impedendo quindi a Harry, di fatto, di trovare una soluzione e bloccandolo all’interno di Pikachu per altri due anni. Diciamo che non fila benissimo.

L’altra difficoltà, per così dire, è nel piano di Merloch, che rappresenta forse il punto più debole di tutto l’impianto narrativo di Detective Pikachu: Il ritorno. Per quanto i singoli step siano sensati, il collegamento tra loro suona piuttosto labile: Merloch aveva davvero bisogno di fare tutte queste cose? C’era bisogno di investire così tanto sulla progettazione e sulla distribuzione dei Cubi? Ma sul serio l’energia psichica di Mewtwo può essere estratta dai corpi di Harry e Pikachu (senza danneggiarli davvero) per permettere a Merloch di occupare il corpo di Deoxys, accantonando quindi tutta la tecnologia dei Cubi? Insomma: l’impressione è che si sia voluto infilare nel gioco più di una trama, accostando a quella originale (quella dei Cubi, che in parte ricalca quella dell’Agente R, e che permette di muoversi all’interno di quel comodissimo diagramma di flusso illustrato prima) quella di Harry e Pikachu, da “recuperare” direttamente dal film, quasi fotogramma per fotogramma.

La domanda, a questo punto, è ovvia: chi l’ha pensata prima? Sono stati quelli di Creatures Inc, che però hanno scelto di accantonarla nel primo gioco e se la sono tenuta da parte per poter giustificare un sequel, rivelandola poi a quelli della Warner? O, al contrario, è un’invenzione ben riuscita del team creativo del film, adottata in un secondo momento dagli inventori di Detective Pikachu? Particolarmente rivelatoria è l’intervista a cui avevamo già fatto riferimento nella recensione spoiler free, uscita il 10 settembre scorso, in cui Yasunori Yanagisawa, Senior Creative Director di Creatures Inc., parlando del film, rivelava che “[…] c’è stata una certa influenza. […] Stavo parlando coi produttori e ho iniziato a pensare ad uno scenario per questo gioco. C’è stata sicuramente dell’ispirazione che è arrivata dal film, dalla storia e dalle nostre intenzioni di creare qualcosa di simile a livello di trama.”

Ma quindi, Pokémon: Detective Pikachu 2?

A prescindere da quale sia la risposta, ad oggi abbiamo a disposizione questi tre prodotti, Detective Pikachu (2016, Nintendo 3DS), Pokémon: Detective Pikachu (2019, Warner Bros.) e Detective Pikachu: Il ritorno (2023, Nintendo Switch); i giochi vanno per la loro strada, con qualche difficoltà per dare coerenza a tutto, mentre il film ad ora è più o meno un riassunto di entrambi i giochi. Insomma: stessa storia, narrata in media diversi, in modo più o meno brillante e più o meno coerente.

In videogiochi e film, comunque, Detective Pikachu è di fatto finito: il personaggio caratterizzante non esiste più, con Pikachu che è tornato ad essere un normalissimo Pokémon e Harry che ha finalmente riottenuto il suo corpo e il legame con suo figlio. Sul fronte videogiochi niente di cui preoccuparsi: un altro spin-off che giunge al suo termine, come tanti altri prima di lui. Ma sul film la situazione è diversa, perché nel gennaio 2019, quindi quattro mesi prima dell’uscita del film, ne è stato annunciato un sequel. La storia, qui, si fa un attimo più complicata: la Legendary Pictures, sviluppatrice originaria del film, nel novembre 2022 ha terminato la sua collaborazione con Warner Bros. che l’ha distribuito e ha firmato un nuovo contratto con Sony. Nel marzo scorso Polygon ha fatto sapere che Legendary ha ingaggiato il regista Jonathan Krisel (Portlandia) e lo sceneggiatore Chris Galletta (The Kings of Summer) per Detective Pikachu 2; nel frattempo, però, gli sceneggiatori originali del film e lo stesso Justice Smith (l’attore che interpreta Tim) dicono di avere poche speranze che il progetto si realizzi, anche se adorerebbero tornare al lavoro su Detective Pikachu.

Insomma: quello di Detective Pikachu è un mondo strano, dal futuro decisamente fumoso, ma che dal 2016 ha sicuramente saputo dare tanto al brand Pokémon e ai fan che attraverso uno dei due media ne hanno apprezzato la storia. In attesa di ulteriori news sul film, dal cui fronte però non è opportuno aspettarsi granché, già posso dire di essere, almeno in parte, dispiaciuta: il viaggio di Detective Pikachu nel mondo dei videogiochi è senz’altro finito. Ed è un peccato, specialmente quando una produzione minore come questo spin-off fa letteralmente impallidire la prima parte del DLC di Pokémon Scarlatto e Violetto, uscito solo due settimane prima, il cui confronto con Detective Pikachu in termini di qualità è assolutamente impietoso. Avremo modo di parlare anche di questo: ma tra il bizzarro idillio bucolico di Nordivia e i suoi abitanti, tra la strana vicenda di un paese che odia un “pericoloso” orco immaginario, le bizze di Rubra e le bislacche crisi adolescenziali di Ruben da una parte, e uno strano Pikachu amante del caffè dall’altra, sceglierò mille volte il secondo, nonostante quella sensazione di voler infilare troppe trame in un gioco solo con i piani dei supercattivi un po’ troppo stratificati.

Oltre ai ricordi, mi accompagneranno anche queste due adorabili spille a tema (una è anche già parecchio vissuta).

Di Detective Pikachu abbiamo detto:

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