[RECENSIONE] Detective Pikachu: Il ritorno è un gioco con l’anima

Partiamo dalle basi. Che cos’è Detective Pikachu: Il ritorno? Si tratta di un gioco per Nintendo Switch, spin-off della saga Pokémon, sequel del titolo Detective Pikachu uscito in Giappone nel lontano 2016 per Nintendo 3DS da cui ha tratto ispirazione il famoso e famigerato film del 2019. E come funziona? In che consiste? Vediamo un po’ di capirlo con questa recensione, che affronta lato tecnico e contenutistico, assolutamente spoiler-free.

Che cos’è?

Il gioco, diversamente dalla saga principale, non prevede lotte Pokémon: Ryme City, la città in cui è ambientato, infatti, promuove la coesistenza pacifica tra esseri umani e Pokémon e tra Pokémon stessi. All’interno della città sono vietate le Poké Ball e le lotte tra mostriciattoli.

Il titolo è, sostanzialmente, un gioco di deduzione: il giocatore deve indagare su dei casi ogni volta incentrati su zone ben delimitate all’interno del gioco. Ad esempio, il primo caso si svolge all’interno di una zona della città, mentre il quarto si svolge sempre a Ryme City, ma in tutt’altro quartiere. Il punto di vista e lo scorrimento sono rigidamente orizzontali, con rare eccezioni.

Per indagare il giocatore muove Tim o Pikachu, a seconda del momento, e può parlare con esseri umani o Pokémon; può anche soffermarsi su zone del mondo di gioco che catturano la sua attenzione, qualora compaia il prompt “Esamina”. Queste interazioni possono dare degli indizi (scritti in giallo) che vanno poi ad arricchire il taccuino del detective. Aprendo il taccuino si potranno tirare le conclusioni ed andare avanti nel caso.

In determinati momenti, Pikachu potrà avvalersi dell’aiuto di altri Pokémon e sfruttare le loro capacità: Growlithe potrà seguire le scie d’odore (rese visibili come volute di fumo colorato), Darmanitan potrà frantumare le cose, Luxray potrà vedere attraverso i muri e Pangoro potrà spostare le cose (come la vecchia MN Forza).

I protagonisti dovranno misurarsi anche in alcuni piccoli minigiochi, come riuscire a spostarsi eludendo le guardie, oppure farsi strada all’interno di un magazzino pieno di casse. Durante le cutscene (numerosissime, e realizzate tutte nel motore di gioco) sarà a volte richiesto di premere un pulsante più volte e il più velocemente possibile, o premerlo in un preciso istante: insomma, i cosiddetti quick time events.

In conclusione, le meccaniche di gioco non sono assolutamente niente di scioccante o originale: ma a questo titolo non serve davvero niente del genere. Detective Pikachu: Il ritorno è, e vuole essere, una storia; il “gioco”, inteso come attività ludica, è solo un pretesto e un accompagnamento.

Giochi senz’anima, giochi nel limbo, giochi con l’anima

Il vero punto di forza di Detective Pikachu: Il ritorno, infatti, è che si tratta di un gioco con un’anima. A differenza di tante (troppe) produzioni Pokémon, infatti, questo è un gioco Pokémon, nel mondo Pokémon, in cui i protagonisti sono esseri umani e Pokémon (che si comportano come Pokémon).

Ci sono giochi, come Pokémon X e Y, che non hanno un’anima: sono gusci vuoti, brandizzati Pokémon, in cui ci sono queste creature colorate con statistiche e mosse che affiancano gli umani, chiusi nelle loro Poké Ball, immersi in un mondo smorto, macchietta del nostro; non offrono nient’altro che un palcoscenico per muovere i mostriciattoli. Ci sono giochi, come Pokémon Scarlatto e Violetto, che si trovano in una specie di limbo: un po’ ci provano, ad avere qualcosa da dire e da raccontare, ma rimangono a metà strada, impacciati quando da limitazioni grafiche, quando da limitazioni narrative, quando da occasioni non colte. Ci sono giochi, poi, che un’anima ce l’hanno e si vede: Pokémon Bianco e Nero e i loro sequel, Leggende Pokémon: Arceus, i primi Pokémon Mystery Dungeon; giochi che riescono a mostrare un mondo in cui i Pokémon vivono, si muovono, si rapportano con l’ambiente circostante, tra loro e con gli umani, secondo quelle stesse indicazioni etologiche scritte nel Pokédex da sempre ma quasi mai rispettate. Un mondo vivo, una storia, un’avventura; Detective Pikachu: Il ritorno, rigorosamente spin-off, rigorosamente chiuso nella sua bolla (ne riparleremo più avanti), è un gioco con un’anima.

I Pokémon di Detective Pikachu: Il ritorno sono Pokémon che appaiono reali: ci sono dei Pidove smemorati, un Exeggutor a cui bisogna rivolgersi una testa alla volta, delle Applin che girano il mondo all’interno di una cassa di mele. E tutto questo solo all’interno del prologo; basta proseguire per trovare un Watchog pattuglia urbana, dei Whimsicott nomadi del vento che lasciano dietro di sé caos e cotone, un Cramorant che ingoia cose. E la cosa fondamentale è che i comportamenti e le abitudini di questi Pokémon impattano sul serio sulla vita quotidiana di Ryme City, e sulla storia, sui singoli casi, in maniera naturale e non forzata. Come se questa per il mondo Pokémon fosse la normalità – cosa che, purtroppo, finora è emersa così chiaramente in ben pochi giochi. Perché, di norma, pur convivendo assieme, quello che vediamo sono il mondo umano e quello Pokémon comunque rigidamente separati, o al massimo giustapposti: ambienti fortemente antropizzati con Pokémon a contorno, o zone selvagge senza la minima traccia di civilizzazione umana.

Se avete notato, prima ho parlato di “delle Applin”: questo gioco contempla che i mostriciattoli possano avere sessi diversi da quello maschile. Per tutta la storia, quindi, ad ogni Pokémon viene riconosciuto il proprio genere e i protagonisti si rivolgono a ciascuno con i giusti pronomi (Growlithe, ad esempio, è una femmina). Una cavolata, forse, ma ricordo che Pokémon Scarlatto e Violetto ancora non hanno implementato questa piccola accortezza, quando i Pokémon hanno un sesso dal lontano 1999, con l’introduzione della meccanica dell’accoppiamento in Pokémon Oro e Argento.

I Pokémon e gli umani, tra bianco e nero

Ma su cosa si focalizza Detective Pikachu: Il ritorno? Di che parla? Singoli casi, come abbiamo detto, tutti uniti da un robusto fil rouge narrativo che copre un’indagine a largo spettro. C’è un furto in villa, un incidente alle rovine, delle investigazioni sul crimine a Ryme City; e per ciascuno di questi singoli casi c’è tanto da dire, in primis per le modalità con cui vengono gestiti, narrativamente parlando, e poi per il modo che la storia ha di interagire con le regole del mondo Pokémon stesso.

I Pokémon non sono per propria natura malvagi. Tendenzialmente, poi, non mentono. E allora come si fa a costruire un caso, con un “cattivo” che sfrutti appieno il mondo Pokémon e quindi anche l’aiuto dei Pokémon, con i loro comportamenti e le loro peculiarità, rispettando però il fatto che questi ultimi non possano essere malvagi? Sono limiti stretti, e assolutamente non facili, per tirare fuori una narrazione convincente. Detective Pikachu: Il ritorno ci riesce, bene, con dei piccoli espedienti.

In questo mondo, vivo e reale, umani e Pokémon cercano di convivere serenamente ma qualcosa sta incrinando questo sottile equilibrio. Se per i Pokémon di Ryme City vale una sorta di bontà naturale, una linea oltre il bianco e il nero, semplicemente dettata dal loro istinto, non è così per le persone: mai come adesso possiamo vedere, nei limiti di un PEGI 7, le sfumature delle personalità e delle motivazioni umane; ci sono tre persone che si ritrovano a gestire un lutto in tre modi diversi, c’è una comunità alle prese con la sottrazione dei propri compagni Pokémon e con l’ansia che ne deriva; ci sono, in modo semplice ma verosimile, cattivi che non sono i classici malvagi tutti d’un pezzo, pazzi, ciechi, monodimensionali; c’è gente che lavora per un obbiettivo e che, nella stragrande maggioranza dei casi, è vittima dei propri desideri – che siano di agio economico, di controllo, di conoscenza o potere.

Il risultato è qualcosa che non mi aspettavo: è The Pokémon Company che decide di alzare il tappeto e ridare un’occhiata alla polvere che ci aveva nascosto dopo le pulizie di primavera ai tempi di Pokémon Bianco e Nero e sequel. In Ryme City, la città all’avanguardia dove umani e Pokémon provano a convivere senza Poké Ball e senza lotte, per la strada, la notte, non ci si sente più così sicuri. E, come nei migliori drammi storici, iniziano ad emergere parole come “sorvegliare”, “gestire”, si inizia a cercare di limitare una “libertà” che invece era stata la base del progetto Ryme City. Insomma, c’è tanto da dire e ne riparleremo più avanti, spoiler alla mano.

Un comparto ottimo e uno un po’ deludente

La narrazione rimane il punto forte di Detective Pikachu: Il ritorno; i singoli casi sono ben curati e davvero molto carini, e la risoluzione non è scontata dal primo minuto, anzi. Questo risultato viene raggiunto con piccole accortezze, decisamente apprezzate: si parte dalla caratterizzazione dei personaggi (niente di incredibilmente avant-garde, ma decisamente sopra la media per la saga), dall’aiuto della musica (molto bello il tema principale, per non parlare della stazione di polizia, di Villa Denis o del Bosco di bambù), e delle scelte di regia, in alcuni punti particolarmente azzeccate. Il voice acting inglese inoltre è decisamente all’altezza del compito: la voce di Pikachu è senz’altro la colonna portante del gioco, ma anche quella di Tim si difende bene e quella di Rachel fa il suo lavoro, specialmente nell’ultimo caso.

Ci sono però degli aspetti su cui invece è difficile chiudere un occhio: specialmente lo scorrimento orizzontale, che nel 2023 su Nintendo Switch fa piangere il cuore, e la qualità grafica che sostanzialmente non è troppo dissimile da quella di Kingdom Hearts 2 (PlayStation2, anno Domini 2005). Le meccaniche di gioco sono poi, come già ricordato, piuttosto basilari; e se è vero che non è questo che serve a un titolo come Detective Pikachu, si può almeno argomentare che qualcosina in più, in termini di qualità grafica e movimento nel mondo di gioco, si poteva fare.

Inoltre, per quanto mi sia goduta la storia e la cura riposta nella sua costruzione, rimane il fatto che prologo e cinque casi siano forse un po’ pochini: cercando sempre di raccogliere tutti gli indizi possibili e completando tutti i grattacapi, sono arrivata a 13 ore e mezzo di gioco totali. Il bilanciamento dei tempi, narrativamente parlando, è perfetto, ma in fin dei conti il gioco è breve.

Delitto e castigo

Un’ultima parentesi, tutta dedicata al rapporto tra errore e punizione. Trattandosi di un gioco d’indagine, dopo aver raccolto tutti gli indizi (basta parlare con ogni singola persona e Pokémon, scandagliare tutto lo scenario – piuttosto ridotto, vista la limitazione dello scorrimento orizzontale), il gioco mette alla prova la comprensione della situazione con una domanda a risposta multipla; fornita la risposta corretta, la storia va avanti. Ma che succede, se si dà la risposta sbagliata?

Tendenzialmente, niente: Pikachu o Tim scuoteranno la testa e commenteranno con un semplice “mmmh, no, non può essere questo”. Il gioco riporta alla domanda e alla scelta multipla; l’opzione appena scelta, sbagliata, si colorerà di scuro e presenterà una bella X al di sopra, di modo da non poterla più selezionare neanche per sbaglio.

Chiaramente, visto che si tratta di un gioco di indagine profondamente story-based, con domande a scelta multipla, non può essere per sua natura troppo punitivo: se lo fosse, d’altronde, basterebbe ricaricare il salvataggio precedente e provare un’altra risposta, e poi procedere serenamente. In tale ottica, il gioco ci risparmia la fatica, rendendo l’errore totalmente indolore. Stessa cosa per i quick time events, con almeno qualche piccolissima cutscene dedicata all’errore. Inutile dire, però, che questa soluzione può addirittura rivelarsi anticlimatica, specialmente durante un confronto acceso o in momento decisivo della storia; avrei preferito che il cattivo di turno mi rispondesse, che in qualche modo mi fosse fatta “pesare” la mia risposta sbagliata.

Un target, due target, tutti i target

Ma torniamo ad un sentimento assai comune per un fan Pokémon: quello di avere davanti un prodotto che vuole per forza tenere il piede in due, tre, tutte le staffe possibili. Mi riferisco, come al solito, all’annoso problema che caratterizza la saga Pokémon: a chi è destinato questo gioco?

Nel caso di Detective Pikachu: Il ritorno (che, ricordo, è valutato PEGI 7) da un lato gli enigmi sono semplici (ma non banali) e quindi alla portata dei bambini; dall’altro, le tematiche spingono più verso i giovani adulti. Insomma, come al solito The Pokémon Company mira a tutte le età possibili: lo conferma anche un’intervista rilasciata a settembre dal Senior Creative Director di Creatures Inc., che ha sviluppato il gioco, e che immagina di vedere giocare a Detective Pikachu: Il ritorno figli e genitori assieme.

Promosso?

Promosso, quindi? Assolutamente sì: l’attenzione alla narrazione, la storia, i personaggi, tutte queste cose lo rendono godibilissimo per una quasi 30enne, senza figli, che ha sempre amato la saga, con la passione dei romanzi gialli e dei giochi imperniati sulla risoluzione dei misteri. Al tempo stesso, il tempo di gioco è poco, e l’aspetto tecnico e ludico può tranquillamente essere definito un po’ debole.

Di Detective Pikachu abbiamo detto:

Nel frattempo, dopo tutti i caveat del caso io vi consiglio di mettere le mani su questo titolo: che ne dite? Fateci sapere la vostra, come sempre nei commenti ai nostri canali social!